Annabella era una donna dall’ età indefinibile. Poteva avere sessantacinque o settant’ anni, ma non li dimostrava perché era sempre vestita in maniera adeguata, vestendo capi d’ abbigliamento rigorosamente di classe.
Non indossava capi firmati, ma vestiti ricamati rigorosamente a mano che profumavano addirittura di lavanda.
Parlava sommessamente, quasi bisbigliava le parole proferite che fiorivano dalla sua bocca graziosa, ma non volgare, come fossero note musicali e, virtù rarissima presso gli abitanti di «Amardolce», non interrompeva mai i suoi interlocutori.
Annabella aspettava pazientemente che essi smettessero di parlare prima di proferire parola.
Non interveniva mai in discussioni puerili e non formulava mai giudizi negativi sugli altri, parlava soltanto quando doveva esprimere uno stato d’ animo particolare che aveva colpito la sua sensibilità, senza mai entrare nel pettegolezzo.
Era ben vista dalla maggior parte del paese, anche se non parlava mai il dialetto locale.
Era sostanzialmente una donna garbata, colta e comprensiva. Amava gli animali, soprattutto i gatti randagi ai quali distribuiva gli avanzi del cibo all’ imbrunire, parlava correttamente l’ italiano e utilizzava correttamente il congiuntivo.
Annabella aveva un unico punto debole: il passato.
Quando qualcuno le chiedeva incautamente qualcosa sul suo passato, i suoi occhi verdi s’ incupivano improvvisamente e diventavano addirittura trasparenti, come le lenti degli occhiali da vista che continuava a pulire quando era a disagio.
Si chiudeva a riccio, smetteva di ascoltare e s’ inventava una scusa qualsiasi per allontanarsi con discrezione, quasi avesse timore di sciupare con le scarpe l’ acciottolato che ricopriva la piazza centrale del paese.
Gli anziani rispettavano la sua privacy ma, come spesso succede in questi casi, alcune comari spettegolavano sul suo modo di agire, ipotizzando chissà quale malignità inconfessabile si nascondesse dietro al suo passato.
«Sergio, quella donna non ha un passato», mi disse mia madre.
Fu allora che sentii il bisogno epidermico di conoscerla personalmente.
Nella mia vita, sono sempre stato affascinato dalle persone misteriose e taciturne, anche se purtroppo io sono sostanzialmente un chiacchierone.
Devo fare una premessa doverosa.
La piazza di Amardolce, che si affaccia sulla bellissima Chiesa della «Madonna dei Raccomandati» è il luogo deputato dove si svolgono gli incontri fortuiti, le tresche amorose, i pettegolezzi, i matrimoni, i funerali e quant’ altro, per cui posso affermare senza ombra di dubbio, che la vita sociale degli abitanti del luogo si svolge al novanta per cento in piazza.
Caratteristica che purtroppo non ho riscontato in Lombardia dove vivo ormai da più di trent’ anni.
Approfittai di un pomeriggio in cui non ero particolarmente impegnato con lo studio universitario per conoscerla di persona.
Annabella era seduta su una panchina di cemento davanti al «Monumento ai Caduti», una statua di bronzo raffigurante due militari stilizzati che si abbracciano affettuosamente, e stava facendo l’ uncinetto.
Mi avvicinai cautamente alla donna, la salutai scuotendo leggermente il capo e mi sedetti vicino a lei con nonchalance.
Annabella smise di fare l’ uncinetto, si girò lentamente verso di me e mi bisbigliò: «Minervina è una brava merlettaia!».
All’ inizio, dovetti fare uno sforzo immane per udire ciò che mi stava dicendo, ma dopo qualche minuto che l’ ascoltavo mi resi conto che dalle sue labbra uscivano soltanto parole positive e giudiziose.
Nel suo vocabolario, erano bandite le parolacce, le negatività e, soprattutto, le cattiverie.
Mi parlò della passione innata che aveva nei confronti dei gatti randagi, a cui aveva l’ intenzione di lasciare tutti i suoi risparmi dopo la sua dipartita. Li conosceva tutti, a uno a uno, e, durante l’ inverno, quando i poveri felini avevano freddo, li ospitava a casa sua. Comprava spesso del cibo che distribuiva loro, nonostante il fatto che la sua pensione non fosse particolarmente alta.
Mi disse pure che aveva adibito nel suo piccolo garage un «rifugio permanente per questi piccoli e meravigliosi felini che allietano la nostra esistenza».
Ascoltai con attenzione ciò che mi stava dicendo con una piacevolezza indicibile.
Rimasi piacevolmente ipnotizzato dalle sue parole che sembravano essere sussurrate al vento, per quanto fossero delicate e leggiadre. Poi, dopo essersi sistemata il fazzoletto di seta che le legava i capelli sulla testa, si alzò dalla panchina e mi porse delicatamente la mano.
Notai che le sue dita erano sprovviste di anelli e che le sue unghie, particolarmente curate, lasciavano affiorare una pennellata di smalto rossastro che le dava un’allure particolarmente snob.
Rimasi senza parole mentre accennai un timido saluto alla persona più educata che io abbia mai incontrato ad Amardolce.
Naturalmente, durante la nostra piacevole conversazione, non feci nessun accenno al suo passato, prima di tutto perché ognuno di noi ha il sacrosanto diritto di preservarlo e secondariamente perché esso è la sintesi del nostro carattere e non deve essere assoggettato a nessuna speculazione ideologica.
Il fatto che Annabella amasse perdutamente gli animali è la dimostrazione palese che il suo passato, di cui non ha mai parlato con nessuno, l’ ha portata ad amare soprattutto gli animali.
«Bisogna essere molto forti per amare la solitudine», scriveva nel 1971 Pierpaolo Pasolini in «Trasumanar e organizzar», un’ emarginazione sociale che, forse, l’ ha costretta ad amare i gatti randagi più degli esseri umani.
Annabella è naturalmente un nome inventato.