Quid actum sit idibus Aprilibus anno novo, initio saeculi felicissimi, volo memoriae tradere.
I
Che giorno fausto fu quello che ti vide vittorioso salire sul carro dorato del trionfo ad annunciare ai popoli il destino d’ un popolo! Quale tripudio, quale turbinio di lodi!
Per ogni dove da quel dì scandiscono le genti solenni ovazioni; là, dove scorre rapido il Tago che trasporta ciottoli d’ oro, sospesi per un giorno gli usuranti lavori, si indicono più di mille corride, sacrificando a te le corna ricurve del toro furente trafitto da spiedi appuntiti; e là, nelle estreme regioni che cadono sotto la gelida Orsa, gli abitanti vestiti a festa si riversano acclamandoti e riempiono con calde e garrule grida la pianura sterminata immersa nella frigida bruma; e laddove l’ arido Cancro sovrasta una terra affocata dal sole che vede ogni ombra sparire, qui, il nudo agricoltore del podere avito, dismesso l’ aratro e sciolti i buoi aggiogati, s’ inchina alla tua maestà roteando la testa tre volte; e dove le contrade vedono nascere il sole, voi, voi Indi, che vi abbeverate al dio Gange assieme ai cavalli di Febo, disciolte le nerissime chiome fluenti e dipinto di porpora e croco l’ ignudo corpo flessibile, offrite essenze di nardo e cìnnamo e corone d’ esotici fiori.
II
O Bellezza del mondo, o raggiante Riso, brucia per te il popolo l’ incenso sabeo e nuvoli di fumo fragrante s’ alzano fin sopra alle stelle; come la Primavera ravviva di colori la tenera erbetta rinata nei prati ai soffi zefirei e ridà slancio e vigore alla natura risvegliata dal lungo torpore invernale, così tu vivifichi le forze e dai impulso alla speranza; guarda il costruttore di case, che appena ieri poggiava l’ inerte capo alle mani e in tal contrizione s’ abbatteva all’ idea di perduti profitti, già dispiega muratori e betoniere e, salito con agile balzo sul trattore, traccia con solco preciso una nuova città che porterà il tuo nome; ecco, le gru migrano di nuovo da un cantiere all’ altro, e le ferree strutture svettano superbe nei cieli girando i lunghi bracci carichi d’ immani pesi; il pigro campano, che poco prima vedeva sgomento sull’ uscio di casa montagne di maleodoranti rifiuti accumulati dal triste tiranno che la tua destra possente, or non è molto, ha schiantato al suolo, ora esulta nel vedere l’ indecente lordura sparita e in sua vece fiorire le caduche rose e i fragili gigli e ogni profumo che l’ arabo con esperta mano raccoglie nelle tumide selve vi spande nell’ aria gli aromi preziosi; l’ azzurro regno dell’ equoreo signore del tridente ha vergogna d’ apparire inoperoso e innalzate torri d’ acciaio che toccano l’ etere, dispiega, a dispetto della costa, miriadi di pozzi, trivelle e piattaforme, a contendere alla terraferma il primato del fare; anche le navi panciute che custodiscono nel grembo il greggio costoso e che prima intristivano depresse nelle anguste rade dei golfi, favoriti dai tuoi ordini preziosi, riaccendono i motori e già s’ odono i triplici fischi d’ addio ai porti che lasciano con la speranza di nuove commesse; lo stesso tassista, che sol ieri giaceva prostrato sui logori sedili del suo errante veicolo, allegro fischietta e rilucida a nuovo l’ infangata carrozzeria sicuro di un futuro radioso; fugge via ogni paura all’ operatore di volo, l’ angoscia di un malcerto destino si risolve in incrollabile fede, ed intreccia in tuo onore rustiche danze assieme a colleghi e famigli, poi salta sul volo che lo porterà vicino all’ astro fiammeggiante; ma perché m’ attardo ad enumerare i prodigi? A che contare i nemici sconfitti? Chi può contenere l’ impeto della tua furia? Chi la grandezza dei benefici? Tu puoi tutto ciò che vuoi!
III
Se ti piace che le due sponde separate dal canal di Sicilia s’ uniscano, vedrai Scilla e Cariddi abbandonare incustoditi i loro fiotti sanguigni trafitti dai titanici piloni che conficchi loro addosso con mano decisa; o tu vuoi aggiogare la Corsica alla Sardegna per farne un’ unica isola? Quel mare allora si ritrarrà sgomento e le sue bocche riempite di zolle e macigni, e il marinaio corso seminerà nei solchi di una terra novella; a te è dato il potere di spiantare le colonne possenti poste dal figlio d’ Alcmena e spianando l’ estrema Calpe ove rimbomba l’ Oceano, sbarrare la via all’ Occidente; puoi sradicare montagne, afferrare il monte Rosa e collocarlo sopra il Bianco, se ti va di vedere dall’ alto la fertile pianura di Nevania feconda di tori o i gioghi aspri dell’ Appennino o scrutare sul dorso degli aerei che sfrecciano di sotto i marchi di flotta; puoi tagliare in due pezzi l’ Italia, e riunito così il Tirreno con l’ Adriatico, creare un lungo canale navigabile di modo che il mozzo campano saluti da poppa con festevole mano il taciturno pastore che col lanuto gregge s’ abbarbica ai selvaggi dirupi del Gran Sasso; sol che tu lo voglia, lunghissimi serpenti d’ asfalto si snoderanno per ogni dove e una fitta ragnatela di strade ti aprirà qualsiasi luogo, anche il più remoto; qualunque monte vorrai traforare, il distruttivo ariete delle tue braccia ne sgretolerà le rocce, fosse anche la maestà dell’ Everest; tu puoi domare il feroce Mulcibero che getta macigni con la bocca di fuoco; riattaccare alla banchisa i ghiacci giganteschi che se ne staccano, o, volendo, farli crollare con fragore da scuotere il polo; per te, credimi, troppo è piccolo il mondo, ben poca cosa ti è quest’ arida aiuola. E perché allora risparmiare le stelle?
IV
Non può ancora una volta la bianca vergine del cielo patire il tuo piede che pressa? Suvvia annuncia tu a Mercurio la tua venuta sopra la sua stella affocata!
Non ha da temere forse Venere che tu la rapisca e in un vortice avvolga il suo fulgore nel tuo?
Già Marte si ritira rutilante attraverso gli spazi stellari al solo udire il tuo nome, sgonfia l’ ampio petto e china la fronte guerriera; lo stesso padre degli dei balza dall’ alto del seggio ove è assiso e lascia cadere le triforme saette che scuotono l’ etere, credendo l’ antico genitore tornato a riprendersi il trono del cielo; Nettuno s’ immerge in una liquida nebulosa al passaggio tuo terrificante e, se stesso creatore di mostri, stima che un incognito orrore si sia dischiuso nell’ ovulo terra; Saturno ha paura di essere divorato da te e più freddo del solito riassapora la sconfitta subita da una moderna progenie di dei; paventa Urano supplizi e una mutilazione ancora più atroce all’ udire la tua prossima apoteosi; né il tuo estremo riparo, Plutone, t’ assicura, o dio degli inferi, di non essere digerito ancora una volta, ma senza bevanda vomitiva.
Ma tu miri agli astri e ti crucci che il luminoso carro del sole trascorra con orbita obliqua i vividi fuochi delle Costellazioni scandendo i secoli con ritmo immutabile; allora ecco le braccia tue salde raccogliere le redini abbandonate sul dorso dei bianchi cavalli da Febo, che cela la faccia dietro il disco della pallida sorella preconizzando un rinato Fetonte, e veloce galoppi alla volta del principio del tempo, verso l’ Ariete che trasportò Elle caduta, per strappargli in un colpo il vello dorato; ora trapassi e travolgi il Toro dalla dura cervice che rapì la bella Europa dal niveo incarnato, ora sconvolgi i benefici Gemelli del cigno che tremanti si rintanano nell’ uovo materno, a danno del miseri naviganti che patiscono l’ assenza degli occhi del cielo; l’ arido Cancro rimpiange il piede poderoso di Ercole e sfuggendo le ruote del carro fiammeggiante che guidi, già discioglie, in uno spazio non suo, i ghiacci che serrano i domini glaciali del polo; ardito e temerario incalzi il feroce Leone, terrorizzato di rivedere la sua pelle smisurata ricucita addosso ad un eroe risorto; geme la Vergine Astrea, già bandita da ogni contrada del mondo e domanda piangendo da che luogo potrà recare giustizia ai mortali.
Ma perché solo ad una parte del firmamento è lecito contemplare la serena icona del tuo volto? Con rapido corso piombi nell’ emisfero sinistro e squaterni la calibrata Bilancia, che aggiunto ai suoi pesi il tuo peso mostruoso, cala rovinosamente il braccio della luce e fa disperare le genti del giorno; fugge spaurito lo Scorpione, silenzioso vendicatore di ogni boria e vanto, e si rintana al di sotto dell’ orizzonte lasciando scoperta la ritorta coda scintillante a non vedere l’ incanto; né a te, vecchio Chirone, può giovare ormai la mortale saetta, o la tua medicina, o la cetra sonora, ma paventi fra breve un’ inaudita ferita; in guardia stai, capra Amaltea, poiché non potrà più esserti utile il merito di aver allattato un padre di dei; e tu, giovanetto Ganimede, a che la tua bellezza? Un fulgore come novello prodigio sale or ora nel cielo a rapinare la tua forma leggiadra e la coppa d’ oro; e voi, Pesci, presto a sprofondarsi nei remoti abissi siderei, non è questo il tempo di condurre Anfitrite alle nozze.
Tu puoi passeggiare, divino, nella via Lattea, intangibile fra mezzo a meteore e bolidi, e cavalcando la cometa dalla chioma splendente, entrare trionfante nel regno di Oort.
E questa è solo una particella del cosmo,
a te è concesso l’ Universo, o Silvio!