È la prima volta nella mia vita artistica che scrivo qualcosa su mia nonna materna. Il motivo di tale scelta è che negli ultimi tempi penso spesso a lei ed alla sua genuina filosofia di vita.
Mi nonna si chiamava Alfonsina, ma tutti nella mia famiglia la chiamavamo «Nonnetta» perché era bassa di statura, ma forte e determinata come un leone.
Il mio scopo non è quello di scrivere una biografia di mia nonna, anche perché forse non ne sarei capace, ma è quello di ricordare alcune sue caratteristiche psicosociologiche che oggi farebbero rabbrividire i benpensanti che spesso criticano le migranti che indossano il burka, lo hijab, il niqab, il chador, l’ al- amira, la shayla ed il khimar.
Anche mia nonna vestiva abiti lunghi ed indossava un fazzoletto scuro che le avvolgeva completamente il capo, molto simile a quello che indossano oggi le donne islamiche che arrivano in Italia per sfuggire alle persecuzioni e/o alle guerre.
È in questo contesto che vi voglio raccontare alcuni aneddoti legati all’ esistenza dei miei due antenati e, in modo affettuoso, a mia nonna.
Mio nonno Vincenzo, detto «Gimì», e mia nonna si sposarono nel 1913 e, dopo qualche anno di matrimonio, diedero alla luce tre figlie femmine, mia madre Elena Maria e le mie due zie Antonietta ed Eva.
Mia nonna partorì tre figlie in casa senza mai essere stata visitata da un ginecologo quando era incinta.
In quei tempi, era la «mammina», l’ ostetrica, che faceva nascere i bambini.
«Nonnetta» raccoglieva e baciava il pane che noi facevamo cadere involontariamente per terra e, dopo averci soffiato sopra per pulirlo, lo conservava gelosamente nella sua credenza perché esso era un bene prezioso da conservare.
Diceva spesso che nel corso della sua esistenza aveva avuto la sfortuna di vedere due guerre: la Prima e la Seconda Guerra Mondiale ed il pane, appunto, era stato un alimento indispensabile per sopravvivere alla miseria ed alla fame.
Ecco perché mia nonna aveva un grande rispetto per la pagnotta di pane e per alcuni altri beni primari, come ad esempio il sale e lo zucchero, cibi che per noi, nati negli anni Cinquanta e sessanta, erano beni prettamente secondari.
Durante il periodo in cui mio nonno era al fronte, «Nonnetta» rimase a Gessopalena.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, mio nonno «Gimì» si recò per ben due volte in America per cercare fortuna, ma al rientro definitivo in Italia, dopo un drammatico naufragio in mezzo all’ oceano Atlantico, decise di vivere gli ultimi anni della sua vita a Gessopalena, dove svolse prima l’ attività di cantoniere e poi quella di becchino, pur avendo una paura tremenda dei trapassati.
Mia nonna mal sopportava le magagne di suo marito soprattutto quando tornava a casa ubriaco, caratteristica etnologica molto radicata nella cultura abruzzese di quegli anni, ma il giorno dopo, quando il fumo dell’alcool era svanito, lo rimproverava sonoramente, e lo puniva anche rifiutandosi di concedergli le sue grazie per un periodo di tempo abbastanza lungo.
Senza mia nonna, mio nonno non sarebbe stato in grado di gestire economicamente la sua famiglia e educare le sue tre figlie.
Dietro ad ogni scelta di vita di «Gimì, c’ era la silhouette rassicurante di mia nonna che riusciva sempre a fare quadrare il cerchio.
Quando mio nonno era via per lavoro, «Nonnetta» riusciva sempre a risparmiare dei soldi anche quando i mandati postali spediti da suo marito tardavano ad arrivare a destinazione.
A parte la parentesi in cui «Gimì» si trasferì a Taranta Peligna con tutta la sua famiglia per fare il mezzadro in una vecchia masseria, dove ho ambientato il racconto breve «La cascina rossa», e gli anni in cui lavorò negli U. S.A., mio nonno e mia nonna vissero sempre a Gessopalena, un ridente villaggio in provincia di Chieti.
L’ unico strappo alla regola fu un viaggio a Roma di entrambi i coniugi per espletare alcune pratiche amministrative.
In quell’ occasione «Nonnetta» indossò una gonna così lunga che mio nonno la prendeva continuamente in giro dicendole che «con la sua gonna aveva spazzato tutta Roma».
Tre aneddoti legati agli ultimi anni della sua vita, dopo la morte di suo marito, avvenuta credo nel 1968, mi sono rimasti nella mente.
Il primo aneddoto che vi voglio narrare è che mia nonna, prima di andare a dormire nella sua camera da letto che ospitava anche il sottoscritto, usciva fuori dalla casa popolare dove abitava alle Casette, costruzioni antisismiche erette in seguito al terremoto del 1933, faceva una cinquantina di metri in direzione del sito che oggi ospita il Teatro Comunale «Gennaro Finamore».
Arrivata nel piazzale, che domina la «strada degli innamorati», alzava la testa in direzione delle stelle, poi tendeva la mano nell’ aria, facendo roteare lentamente le dita, allargava leggermente le gambe ed orinava in piedi, pronunciando le seguenti parole: «Chissà se domani pioverà?».
Il secondo aneddoto è sostanzialmente legato al vizio del marito che continuava a fumare i suoi puzzolenti «Toscanini», nonostante che la sua famiglia, come si suol dire in questi casi, non nuotasse propriamente nell’ oro.
«Gimì, se tu smettessi di fumare, forse con i soldi risparmiati, potremmo comprarci un maiale per Natale!», gli disse la moglie in un momento di rabbia.
Ascoltando a malincuore l’ idea di mia nonna, «Gimì» smise di fumare per un anno intero e, alla Vigilia di Natale, disse alla moglie, che nel frattempo si era probabilmente dimenticato dell’ accordo: «Alfonsina, vai nella stalla a prendere la fune e tutto il materiale per preparare il sanguinaccio!».
Mia nonna lo guardò con apprensione pensando che il marito avesse alzato un po’ il gomito, poi si ricordò della proposta fattagli qualche mese prima.
Morale della favola: «Gimì» aveva smesso di fumare per un anno e, con i soldi risparmiati, almeno secondo le ipotesi di Nonnetta, avrebbero dovuto comprarsi un maiale, ma in realtà il pegno era stato inutile perché la vita dei contadini era veramente complicata e non erano riusciti a comprare l’ agognato suino.
Da quel giorno, mio nonno tornò a fumare beatamente i suoi «Toscanini» fino agli ultimi giorni della sua vita.
Morì a causa di un cancro alla gola, e le sue ultime parole pronunciate prima di spegnersi furono le seguenti: «Ho sete, ho sete, datemi dell’ acqua prima che io oltrepassi il fiume Giordano!».
Il terzo aneddoto riguarda più specificamente «Nonnetta» che, rimasta vedova a circa novant’ anni, invocava l’ agognata «santa morte» per non pesare più sulle figlie che a loro volta avevano anche loro una certa età.
Il suo dispiacere maggiore era quella di dipendere dagli altri, soprattutto perché mia nonna, che negli ultimi anni della sua esistenza terrena si nutriva quasi esclusivamente di un uovo sodo la sera e di qualche minestrina riscaldata. Pregava continuamente un trapasso che, a dire il vero, si fece particolarmente attendere perché morì quasi all’ età di cent’ anni.
Se esiste il paradiso e me lo auguro di cuore, «Nonnetta» ci sarà entrata dalla porta centrale vestita di nero, con il suo solito vestito lungo ed il suo fazzoletto scuro, molto simile a quello che indossano tutt’ oggi le maomettane che sbarcano sulle nostre coste, a bordo di quelle sgangherate «carrette del mare» che vediamo spesso alla tivù.
Mi diverto spesso a pensare che mia nonna aspetti suo marito «Gimì», perché è andato a fare baldoria in qualche osteria dell’ empireo, per rimproverargli ancora di fumare quei maledetti sigari «Toscanini» che appestano perfino le stelle che brillano soavemente sul cielo incantevole di Gessopalena.