Non credo esista un'unica ragione per cui si scrive, ma ve ne possono essere di preponderanti.
Anche generalizzare è forse un po' arbitrario e, con piena autorevolezza, solo al singolare ognuno potrebbe dire perchè scrive.
Penso che lo scrivere possa essere una forma di narcisista vanità, un modo per distinguersi ed elevarsi, che attecchisce soprattutto nei contesti dove il “ sapere” è percepito come superiorità.
Nella sostanza non molto diverso, seppur di natura opposta, da quella sensazione di superiorità che può derivare dall'esibizione della ricchezza.
Questa forma dello scrivere ama ovviamente apparire, e cerca con impegno un pubblico da cui essere riconosciuta ed applaudita e cerca gli spunti del suo scrivere, più che non in un autentico sentire, indifferente ed incosciente rispetto alle reazioni che può suscitare, li cerca in ciò che pensa, in quel momento, più facilmente possa attrarre l'attenzione e l'approvazione del suo pubblico.
Difficilmente questo scrivere, che si bagna ne suo tempo, gli sopravviverà, proprio per la sua natura convenzionale e contingente, che non lo può proiettare oltre.
C'è poi lo scrivere che direi intimista, uno scrivere che trova i suoi stimoli in angoscie, dolori, grovigli interiori, che in questo modo trovano uno sfogo ed una costante tensione di chiarezza, un modo di comunicare diverso, più congeniale per sé stessi.
Un modo attraverso cui, per l'impegno e la volontà necessari allo scrivere, si riesce a focalizzare meglio i propri pensieri, altrimenti dispersivi e smarriti.
Un'alternativa al parlare, quando il parlare, per tante ragioni, si trova inibito a quella riflessione e profondità che i tempi più lenti e meditati dello scrivere possono invece dare.
E' uno scrivere che, almeno nella sua fase primaria, non fa riferimento ad un pubblico, non si cura di nulla e di nessuno, ma solo di cercare di scavare le proprie interiori verità.
E' uno scrivere che può giacere anche per tanti anni nel cassetto, dove restava a testimonianza di sé stessi, per poi magari un giorno uscire alla luce.
Spesso si sostiene che il fatto di pubblicare sia la prova del desiderio di trovare nell'atteso riconoscimento esterno una forma di soddisfazione e successo.
Non penso che questo sia necessariamente vero, seppure possa essere prevalente, dato che tanti e diversi, e spesso contraddittori, possono essere i moti dello scrivere.
Capita a volte che si provino in sé stesso dei sentimenti di verità, e che questi li si senta esternamente offesi, e si provi allora l'impellente impulso di esternare le proprie contro- verità.
E vivendo questo in modo del tutto impersonale, indifferenti all'ego, ma non sentendosi altro che distaccati poratori delle proprie interiori verità.
Ugualmente si può sentirsi “ portatori di idee”, arrivare ad osservare i fatti ed anche sé stessi con la più lucida oggettività, arrivare ad analizzare sé stessi quasi si fosse “ altro da sè”, e in questo modo scrivere “ sentendosi soli”, indifferenti a qualsiasi giudizio, o pregiudizio, e sentire quel che si è scritto come “ puro pensiero”, distaccato da sé stessi, e senza nessun senso di possesso su quanto si è scritto, e dissolvere ogni confusione fra la nostra soggettività, più interessata e meschina, ed il processo oggettivo e logico del proprio pensiero.
Ma il più delle volte, penso, esiste sempre una certa interazione fra passione interiore e vanità.
Lo scrivere che ha un senso, penso, è solo quello che nasce da vere e sincere passioni interiori che spingono per essere espresse; lo scrivere autoreferenziale, che si preoccupa più del consenso che del senso, in quanto autoreferenziale è soggettivo e ciò che non si estrania da sé stessi resta in sé stessi, e perchè mai ciò che è culto di sé stessi dovrebbe emozionare altri da sé?