Il tragitto fino alla cascina, seppur breve, era in salita e Rosalia ansimava facendo sollevare vistosamente il suo bel seno, che si intravedeva dalla modesta scollatura, ora con quel caldo aveva dovuto togliere il velo nero del lutto ed il suo abbigliamento era un po’ più leggero. Nino l’ aveva notato e la guardava con occhi pieni di desiderio, una volta arrivati sotto la pergolata di uva sultanina, si sedettero per riprendere fiato e lui le disse: “ Rusalia ‘ n à utru picca sarrai mo mugghì eri e nun mi avi datu mancu ‘ n vasuni.”
Lei le rispose: “ Nino e aviri pacenza, e aviri firù cia, quannu sarrà u momentu sarrò to.”
Lui non si lasciò intimidire e fece per abbracciarla, ma lei lo respinse in malo modo: “ Po ì essiri chi nun capisti.”
L’ uomo si sentì offeso dalla sua reazione e le disse: “ A mo pacenza finiu, ù ora avimu ri fissare u jornu du matrimoniu… haju aspettato già assai.”
Rosalia capì che Nino faceva sul serio e che non aveva alcuna intenzione di soprassedere alla sua richiesta di fissare la data delle nozze e lei risentita gli rispose: “ Continui a nun capiri, ti si scordato chi moriu a matri mia e a hannu e passari tri mesi apprima ri poterci maritari?”
Nino deluso e amareggiato dalla risposta ricevuta continuò: “ U sacciu, nun sunnu ‘ n babbu ma almì enu pinzamu a lu jornu, accussì parramu cu Don Anselmo… chi riri?”
Lei rassegnata: ” Va beni ma ù ora lasciami iri a cò ciri (cucinare).”
Dopo questa discussione Nino tornò al lavoro e Rosalia entrò in casa. Chiuse la porta e tirò un sospiro di sollievo, pensando che anche per questa volta era riuscita a tenere a freno Nino, ma si convinse che ogni giorno che passava sarebbe stato molto più difficile rimandare l’ argomento.
Nel frattempo mise sul fuoco la pignata con i fagioli e poi fece addormentare la piccola, che sfinita per aver tanto giocato si era poggiata sulle sue gambe, lei l’ accarezzava dolcemente raccontandole una delle vecchie storie di Giufà, che le venivano narrate da piccola, questi era un personaggio un po’ astuto, un po’ stolto, un po’ saggio e un po’ sciocco amante dell’ ozio che i nonni solevano raccontare ai propri nipoti. Così iniziò la storia di Giufà ” Tirati la porta”: ‘ Na vota la matri di Giufà iju a la Missa; dici: Giufà, vaju a la Missa; tirati la porta.
Giufà, comu nisciù so matri, pigghia la porta e la metti a tirari; tira tira, tantu furzau ca la porta si nnì vinni. Giufà si cà rrica ‘ n coddu, e va a la Chiesa a jittariccilla davanti di so matri: Ccà cc’è la porta! Su’ così chisti?! La bimba ogni volta che ascoltava questa storia si metteva a ridere tanto da coinvolgere anche lei in un riso irrefrenabile, poi si accucciò fra le sue braccia e sprofondò serena nel sonno.
Dopo aver messo a letto la piccola finì di preparare il pranzo, da lì a poco sarebbero arrivati gli altri, oltre “ La zuppa ri fasuoli cù l’ accia (sedano)” preparò la “ Pasta c’ anciova” ovvero la pasta con le acciughe, usò i bucatini che condì con il pomodoro, le acciughe sotto sale, uva passolina e pinoli e poi completò con una abbondante spolverata di “ muddica”, il pangrattato tostato. Soddisfatta delle sue preparazioni, aspettò l’ arrivo della zia con i due uomini e nell’ attesa salì al piano di sopra, quando per la prima volta e dopo giorni, entrò nella camera di Totuccia. Tutto era rimasto come prima, accarezzò il copriletto di cotone fatto all’ uncinetto dalla mamma, poi la camicia da notte stesa sul letto ed il libro delle preghiere sul comodino, infine aprì l’ armadio e sfiorò tutti i suoi abiti, un dolore acuto la soffocava, il ricordo era così pungente da farle mancare il respiro e provocarle delle fitte taglienti allo stomaco. La sua mente ancora non accettava il fatto che non ci fosse più e che tutto l’ orrore che le era capitato fosse realmente accaduto.
Strinse al petto il suo scialle preferito, sentendo ancora il suo profumo… dicendo: ” Matri mo, si po’ fatti vì riri, haju bisù ognu ri tia, a casa jè vuota sì enza ri te, e iu sunnu mmenzu a mmari.”
Ripose nell’ armadio lo scialle e proprio in quel momento notò in fondo e ben nascosta una scatola di latta, era quella in cui la madre aveva conservato gelosamente tutti i suoi ricordi. Con le mani che le tremavano Rosalia l’ aprì e vide il contenuto, prese le lettere legate da un nastro di raso e stava per aprirle, ma improvvisamente sentì delle voci che si avvicinavano. Mise tutto com’ era e scese di sotto, era arrivata la zia insieme a Bruno e a Nino.
Entrando Bruno esclamò: “ Chi bontà, c’è ‘ n cià vuru (odore) chi fa annuvisciri (resuscitare) puru ri morti.”
Rosalia contrariata disse: “ Nun ammuntuari (nominare) chidde animi dù Purgatoriu, chi abbentunu (riposano) pi paci.”
Bruno: “ Pirdunu nun vulia affì enniri nuddu.”
Così dicendo si sedettero a tavola per consumare il pranzo.
Intanto la marchesa con il figlio, ritornati al maniero trovarono Don Vincenzo alle prese con un colono il quale gli stava dicendo che c’ era stata una strana moria di pecore, la mattina stavano tranquillamente pascolando nei campi di trifoglio e poi dopo un paio d’ ore improvvisamente qualche animale si era accasciato al suolo e da lì a poco era morto. Precisò che erano una decina le pecore decedute. Don Vincenzo stava chiedendo se avesse notato qualcosa di strano o qualche sconosciuto aggirarsi intorno.
Il colono disse: “ Iu nun vitti nuddu solu i pecore a mancià ri e duoppu iri a vì viri…”
Don Vincenzo notando che era arrivato anche Liborio gli chiese di andare con lui a controllare di persona, mentre la marchesa si ritirò nelle sue stanze in attesa del pranzo.
Galoppavano vicini ed entrambi in silenzio, fra i due era sceso un muro di ghiaccio e non sembravano più gli amici inseparabili che avevano lavorato fianco a fianco per tanti anni. Liborio fedele servitore pronto a farsi in quattro per il barone e quest’ ultimo talmente affezionato a lui da considerarlo non una persona a suo servizio ma quasi un fratello. C’ era nell’ aria, un qualcosa di strano, diffidenza, sospetto, e soprattutto da parte di Liborio odio puro per quel fratellastro che aveva tutto e lui niente.
Arrivarono al pascolo e si resero subito conto della gravità della cosa, molti animali erano già morti ed altri erano in agonia. Costatarono che erano stati avvelenati da qualcosa che avevano mangiato o bevuto. Si avvicinarono ai grandi abbeveratoi la cui acqua proveniva dal ruscello vicino, questa aveva uno strano colore, in superficie c’ era una schiuma giallastra che si era allargata formando un grande cerchio.
Don Vincenzo non riusciva a capire che cosa potesse essere, quando Liborio gli propose di prenderne un po’ e di farlo vedere a Bertu, “ U vitirinariu, chillu dutturi ca cura l’ armali”.
Il barone assentì e così fecero, Bertu abitava in una tenuta lontano dal centro del paese, un luogo dove poteva espletare la sua professione in tranquillità e tenere così anche molti animali fra cui una decina di cani e gatti. Arrivarono alla casa dell’ uomo nel primo pomeriggio e lo trovarono intento ad accudire il suo cane, un pastore maremmano che aveva appena partorito i suoi sette cuccioli. Appena vide Don Vincenzo si fece avanti andandogli incontro: “ Don Lenzo, nzoccu vi porta ca? Chi succidiu? Ci sunnu armali ‘ ncinte?”
Il barone: “ Vi fazzu vì riri chistu, cù osa jè pi vuatri? “
E gli porse la bottiglietta con il liquido sconosciuto, raccontandogli che cosa era successo alle sue pecore. L’ uomo l’ esaminò e disse: “ Nun mi vulissa sbagghiari ma para fussi do’ culuri chi dall’ uduri, u vilenu…”
A quel punto Don Vincenzo sempre più preoccupato lo ringraziò invitandolo al maniero per rendersi conto dello stato dei pochi capi rimasti ancora in vita e così con Liborio fecero ritorno a casa.
La marchesa aveva atteso per un bel po’ i due uomini, ma vista l’ ora tarda aveva pranzato da sola. Quando giunsero a casa le raccontarono ogni cosa, lei rabbiosa e preoccupata lanciò uno sguardo fulminante al figlio ed esclamò: “ Cu putissa è sseri statu? Chi si l’ avi pigghiata cu r’ i mischini armali? “
Il barone: “ Nun ni haju cuntu.”
Quando più tardi ebbe modo di restare da sola con Liborio, la marchesa gli si scagliò contro: “ Chi ti si misu pi tì esta? Mi vvoi sbinnari (distruggere) tuttu u patrimoniu? I pì ecure sunnu ‘ na ricchizza.”
Liborio non credeva che la madre si sarebbe arrabbiata in quel modo, abbassò la testa come un cane bastonato e balbettando rispose: “ Crì dia chi facissi piacì ri vidiri suffriri chiddu figghiu ri buttana.”
La madre ancora più furiosa: “ Nun capisti nenti, iu vogghiu tuttu chiddu chi avi iddu. Uò ra ‘ n dù oppu nun fari nenti si nun tè lu dicu iu.”
Siccome è vero quel detto: “ Chi puru i muri hannu i aricchi”, c’ era qualcuno che inaspettatamente aveva ascoltato ogni cosa. Cicca era salita nelle camere da letto per sistemare la biancheria e passando davanti la stanza di Carolina aveva sentito la voce di Liborio, incuriosita si era soffermata ad ascoltare e suo malgrado aveva così scoperto che l’ autore dell’ avvelenamento delle pecore era stato proprio lui. Ora non poteva più tacere, doveva assolutamente parlare con il barone, ma doveva stare molto attenta, quei due erano veramente pericolosi.
Sconvolta scese in giardino dove trovò Don Vincenzo che fumava il suo sigaro seduto sotto il portico a godersi un po’ di tranquillità dopo una giornata intensa e tragica.
A Cicca le si strinse il cuore vedendolo, le sembrava invecchiato di colpo, il viso tirato e triste e lo sguardo, una volta pieno di luce ora si era spento, come se avesse perso la voglia di vivere. Tuttavia anche se non voleva dargli altri dispiaceri, non poteva tacere su una cosa così importante.
Si avvicinò con rispetto e gli disse: “ Don Lenzu mi scusasse si vi do navutri duluri ma haju parrari…” Lui la guardò: “ Cicca chi c’è?”
Ma mentre stava per confessare tutti i suoi dubbi furono interrotti, la marchesa fece il suo ingresso: “ Caru niputi, stasira jè propriu na bedda sira, si sta beni fuora, sutta chistu ntrata…”
Lui:” Aviti raggiuni zia, ma assittativi ca cu me.”
Poi rivolgendosi a Cicca che era rimasta lì in attesa di ordini: “ Cicca allura parra…” Ma la donna disse che non era così importante e si allontanò. Il comportamento di Cicca non convinse la marchesa tant’è che chiese al nipote: ” Cicca jè vecchia, jè ù ora chi pigghi ‘ na cchiù nica, nun ti pare?”
Tuttavia Don Vincenzo rispose: “ Po’ è sseri chi jè vecchia ma chiddu chi c’è da fari, u fa ancù ora beni e pi mia va beni accussì.”
Detto questo chiuse l’ argomento e parlarono di altro.
Liborio s’ aggirava intorno alla casa come un fantasma inferocito, non gli piaceva essere sgridato dalla madre, tutto quello che stava facendo lo faceva esclusivamente per lei, la sua musa ispiratrice di tanti crudeli delitti e non accettava i rimproveri. La sua mente perversa e malvagia iniziava a vacillare e il delirio ormai era alle porte.
Sellò il suo cavallo nero come la pece e partì al galoppo, arrivò in paese e si fermò alla pensione di Nanna Cetta, si fece portare una bottiglia di vino e con l’ aria torva iniziò a bere il primo bicchiere a cui seguirono ripetutamente il secondo ed il terzo, gli altri uomini presenti conoscendolo erano sorpresi di vederlo lì a quell’ ora e soprattutto da solo, infatti, il più delle volte era in compagnia del barone. Lui indifferente dagli sguardi degli altri clienti, continuava a bere fissando il bicchiere. Si era fatto molto tardi e il locale si stava svuotando, fino a quando restò solo lui, a quel punto Don Fifì si avvicinò al suo tavolo: “ Liborio staiu pi chiù iri te ni devi iri…”
Lui alzò lo sguardo annebbiato e borbottando rispose: “ E cu tu risse? Iu ri ca nun me ni vaiu.”
Don Fifì non voleva rogne proprio dal braccio destro del barone, tuttavia l’ insistenza dell’ uomo di voler restare, lo metteva in grande difficoltà. Lo pregò nuovamente con le buone: “ Liborio senti a mia jè megghiu chi te ni otinni.”
Lui agitando il bicchiere si alzò e barcollando gli urlò: “ Ti rissi chi nun me ni vaiu, anzi assettati e vì vi cu me.”
Il proprietario capì che non c’ era altra soluzione che chiamare i carabinieri per farlo ragionare, così mandò Minicu, il ragazzo tuttofare che l’ aiutava a sistemare dopo la chiusura, alla caserma.
Non passò molto tempo dall’ arrivo di Costa e Finocchiaro, i quali invitarono a Liborio di uscire, questi tra i fumi dell’ alcol non si fece intimorire e anzi buttò a terra il tavolo, facendo cadere la bottiglia ormai vuota che si ruppe in mille pezzi, poi non contento andò in incandescenza riempendo di male parole i due militari: “ E vuatri cu siti? Siti sulu merde chi girate pi u paì si sì enza sapiri unni iri… nun ci rù mpiti a minchia…”
E continuò su questo tono, a quel punto furono costretti a portarlo in caserma e lo chiusero nella cella dicendogli: “ Uora passi a notti ca, accussì ti passa a sbronza e duò ppu rumani videmu si parri ancù ra pi chista manera.”
Liborio si attaccò alle sbarre ed iniziò ad urlare: “ Vuatri nun mi sapiti ri chiddu chi sunnu capaci… vi ammazzu a tutti… e poi iniziò a delirare… comu Saro, chidda buttana ri Totuccia, a mà gara ri Munidda, a cornuta ri Ninetta… e scoppiò in una farneticante risata. Quelle parole insospettirono i carabinieri, i quali si avvicinarono e gli chiesero: “ Ma chi minchia stay dicennu?”
Costa fece chiamare il maresciallo Calogero e gli riferirono ciò che aveva vaneggiato Liborio, questi espose le sue perplessità in merito alla confessione dando la colpa al vino tuttavia pensò che era il caso di approfondire la questione. Intanto Liborio era crollato sulla brandina in un sonno profondo.
I due carabinieri fecero la guardia durante tutta la notte, quando sentirono Liborio che agitato parlava nel sonno dicendo: “ Matri fazzu tuttu chiddu chi rici… Ammazzu a tutti chisti surci ri purcili… Ti po’ firari ri me… Sunnu o nun sunnu u figghiu ri Don Ugo?
...E poi ancora: “ Pirdunu a mia… haju sbagghiatu… I muntuni…”
Sentendo ciò i militari erano ormai certi che Liborio fosse implicato negli ultimi tragici avvenimenti, le parole che pronunciava non potevano essere solo causa della sbronza.
La marchesa aveva cercato il figlio inutilmente poi si era accorta che mancava anche il suo cavallo e disse fra sé: “ Chistu figghiu mo avi pirdutu a tì esta… haju stari accorta…”