Perché continui a scrivere? Mi chiedo. Per sopravviveree e talvolta per vivere, rispondo, senza esitare di fronte all’ impertinenza della mia razionalità. Quando hai dentro un vulcano in procinto di scoppiare, quando senti il magma che si dilata e preme e sta per lacerare le pareti dell’anima per trovare uno sfogo, allora io creo il canale di passaggio, il cratere, la bocca che si apre e lascia scorrere la lava, per salvare l’ involucro ormai divenuto troppo fragile per sopportare tanto peso.
E vengo qui, nel mio angolo di solitudine, e scrivo, scrivo, scrivo.
Ma allora la scrittura per te è solo uno sfogo, non è quell’ afflato poetico, quasi mistico, il frutto di quella sacra ispirazione di cui tanta letteratura parla e che dovrebbe essere privilegio di pochi eletti?
La poesia è figlia prediletta del dolore, rispondo, tutt’ al più della fascinosa contemplazione della Natura, nel silenzio e nella solitudine dell’ anima che si perde nel tutto, è la preziosa consapevolezza della transitorietà di ogni gioia, la certezza che la felicità corre su un filo di lama. Per me la poesia è il pegno da pagare per la sopravvivenza.
Troppo dolore può uccidere e tanto più uccide quanto più rimane compresso e stretto e nascosto. Non si muore solo fisicamente. La morte del corpo è una liberazione, una salvifica liberazione. La morte di cui parlo io è quella dell’ anima, della tua interiorità flagellata senza pietà dalla disperazione, per anni e anni e anni.
E ci si sente sempre sospesi, tra la consapevolezza del soffrire e l’ attesa del riscatto, della soluzione, di quella gioia serena, di quella tranquillità tanto agognata, che sia una buona volta definitiva. Come accade ai naufraghi, dispersi nella vastità di un mare in tempesta, sempre sul punto di lasciarsi andare, esausti, con lo sguardo fisso su un lontano approdo, cui pure tendono. Sentirsi sommergere e poi tornare in superficie, a respirare, a sperare, e poi affogare di nuovo.
Per dei brevissimi periodi il vulcano si addormenta, si placa quel rimescolarsi tormentoso e angosciante del magma al suo interno. E torna la speranza, timida e balbettante, con i suoi tremiti di paura nascosta. Attimi che vorresti dilatare fino all’ eternità e stringi forte tra le dita, perché non ti sfuggano come sabbia sottile, granello dopo granello. Attimi, battiti di ciglia, meteore nella notte, fulmini zigzaganti nel cielo. Niente di più.
E te ne accorgi quando tutto torna a ribollire, in modo subdolo, latente. Qualche frase, un atteggiamento del volto, uno sguardo meno limpido, un sorriso innaturale, piccoli segni inconfondibili, avvisaglie, ma che conosci talmente bene, ormai.
Non ti inganna più il tuo vulcano. Ricomincia la guerra con la vita. Come su un campo di battaglia, disponi le tue forze su posizioni difensive, di attesa. Seguono gli avvertimenti mascherati da consigli. Il nemico non cede, non vuole scendere a patti, ingrossa le sue fila, alza la voce, è pronto all’ aggressione. Tutto il campo trema sotto lo scalpitare dei cavalli. Non c’è più tempo per i patti, le proposte di tregua, le promesse di una conclusione pacifica del conflitto. Bisogna solo combattere e sopravvivere.
La morte del corpo è solo una salvifica liberazione. La morte, soprattutto se lenta, dell’ anima è tutt’ altro.
Ecco perché scrivo: per liberare il fuoco che ho dentro, per contenere il dilagare della lava, per creare un canale che la porti dove non possa nuocere a nessuno e riversarsi interamente su di me, fino a non farmi vedere e sentire più nulla, almeno per un po’, per qualche istante, breve come una meteora, come un battito di ciglia, come un fulmine zigzagante tra le nuvole.