CAPITOLO I – L’ Introduzione
“ Prima di dare inizio alla conclusiva cena offertaci dall’ associazione del Premio ***, giunto ormai alla sua XXVII edizione, vogliamo volgere il pensiero e il nostro ringraziamento a coloro che hanno permesso anche per questo anno la piena e soddisfacente riuscita di questa manifestazione… al presidente del Premio professor Franco Spadaccini… (applausi)… al presidente onorario Gabriele Della Porta… (applausi)… a tutti gli sponsor e le realtà economiche che hanno sostenuto con il loro contributo questa associazione affinché avesse i mezzi finanziari per far fronte ai vari problemi di natura organizzativa… insomma, a coloro, poeti giudici e organizzatori, che hanno preso parte attiva alla realizzazione di questa entusiasmante e sempre nuova scommessa… (applausone)… tante volte mi sono chiesto perché si scrive così tanta poesia, oggi… il perché di questa proliferazione di libri e di premi… quando ignoriamo persino che ciclo stiamo vivendo adesso… se la fine della modernità o il suo proseguimento… non sappiamo nemmeno che società ci aspetta, su questa palla avvelenata dall’ uomo… insomma, a che serve un poeta nel duemila?... e come riempire la frattura… la discordia insanabile tra la poesia e la modernità, cominciata non da ora, ma dai sognatori romantici?... reale paradosso questo che fa essere il poeta inattuale e antimoderno… e nello stesso tempo tutto dentro e impregnato fino alle midolla di questa modernità… ma ciò che si gioca dentro a questo scarto è il gioco della parola, la favola della poesia, l’ attività mitopoietica appunto… solo i moderni, infatti, possono essere così laceratamente antimoderni… solo dal niente, dal nulla della poesia, dalla sua sostanziale inutilità, può venirci una qualche informazione circa la bellezza, la superficie dell’ essere, geometricamente cristallina… luce accecante, frontale, intollerabile a occhi abituati al buio dei sotterranei, a occhi di talpa… allora in questa svolta epocale, ripeto la domanda: a che cosa ci serve un poeta?... la sua voce?”… ma uno lì, che se ne sta seduto allo spigolo del tavolone, in fondo, dove sto anch’ io ad aspettare il primo piatto, dice a quella “ Ma nemmeno per stoppa al cannone ci serve, secondo me, un poeta”… ma tutti a fargli sssssss… a dirgli di starsi zitto, di lasciarla continuare in santa pace… di serbare il suo spirito a dopo, semmai, se aveva la voglia di farci lo spiritoso… la Di Camillo allora ci assicura che sarà breve e continua la sua prolusione dal punto interrotto… “ la sua voce… ch’è voce vecchia di millenni eppure non nasce ancora… inascoltata eppure assordante nei suoi inauditi sovrasensi… nei diversi modi del suo dire… e allora la sua influenza non può che essere indiretta… perché essa ci ricorda realtà sepolte… o cose che ancora non ci sono… non dimostra, ma mostra… in tutte le sue forme, nelle sue figurazioni… che possiedono un comune denominatore, un unico tratto: cercano, e a volte scoprono, similitudini fra cose diverse… riuniscono addirittura gli opposti, le coppie antinomiche… tutto ciò fa del testo un universo animato, indefinitamente percorso da una corrente doppia di attrazione e repulsione… conflitti e matrimoni si riproducono nel corpo del suo linguaggio a temporale… gli amori e le separazioni delle stelle e delle cellule… del filo d’ erba, dell’ atomo e degli uomini… ogni poesia è allora un cosmo vivente che riflette il caos armonioso dell’ universo… la concordia discorde delle cose che lo compongono… finché ci sarà l’ uomo, ci sarà poesia… ma questa relazione può interrompersi… può spezzarsi se la nostra immaginazione si corrompe o muore… se ciò accadesse, l’ uomo allora si dimenticherebbe della poesia, si dimenticherebbe di se stesso… e verrebbe ringhiottito, così, nel buco nero del suo caos originario…”
CAPITOLO II
Applaudiamo di cuore, allora, tutti commossi, alla bella esposizione della Di Camillo, anche quello che ci aveva fatto la sua battuta scema, prima, ci applaudisce, ora… cosicché s’ inizia lì, nel gruppetto dei poeti che fanno un po’ corona attorno agli organizzatori e critici, un’ animata discussione attorno a questa araba fenice che cercala cercala, ma nessuno lo sa… ma la comunella si forma un po’ lontano dal punto dove io me ne sto seduto, cosicché un pochino per la distanza un po’ per il chiasso, mi arrivano all’ orecchio solo pezzettini di frasi… monconi di discorsi di quel cenacoletto lì, come… per registrare il presente e la sua perdita irreversibile di senso... e poi… la poesia deve ritornare ad essere il luogo inaugurale... l’ incarnazione plausibile della totalità perduta... è dove si fa visibile l’ oltranza... e poi ancora… il taciuto che va portato a parola… contende i propri passi alla parola non pronunciata... eppoi giù grandinate di trattini, di legazioni, intuibili da come sillabavano le parole… ciò-che- sta- di- fronte… venire- alla- presenza… lasciar- giacere- davanti… insomma, là, di certo, si stava svelando l’ essere in tutta la sua nuda epifania… ma intanto ci arriva l’ antipasto, che i camerieri ci servono con fare compito e ossequioso… così ci mettiamo tutti a mangiare che ci finisce, poi, quella specie di oratorio poetico…
Quando la pancia reclama, a che ci servono i carmi?
Davanti a salcicce e prosciutto, anche la filosofia ci tace
Suvvia, camerieri, danzate con piatti e bicchieri,
è il ventre pieno che non crede al digiuno