Domenico Lorusso, detto «Dum- dum» perché parlava spesso dell’ effetto devastante dei micidiali proiettili sul corpo umano, era conosciuto ad Amardolce, soprattutto grazie agli aneddoti che raccontava, alcuni dei quali erano così assurdi da sembrare vere e proprie barzellette.
Memorabile era quello in cui sosteneva di essere stato incaricato d’ aggiustare un camion militare, durante la guerra d’ Etiopia, rimasto in panne, a suo dire, proprio sulla linea dell’ equatore.
«Smontai il motore del camion e appoggiai i pezzi sulla sabbia rovente del deserto, ma nel momento in cui dovetti rimontarlo, mi resi conto che avanzava una carriola di bulloni, viti e quant’ altro».
«Che cosa ne hai fatto dei pezzi che avanzarono?», chiedeva l’ interlocutore di turno, pur conoscendo già la risposta.
«Misi il tutto sul cassone ribaltabile del mezzo militare, accesi il motore e il camion funzionava perfettamente», rispondeva compiaciuto «Dum- dum».
Le persone che lo ascoltavano ridevano a crepapelle pur sapendo che le sue storie erano inventate di sana pianta, anche se era vero che aveva combattuto in Eritrea dove aveva ottenuto la Croce commemorativa del « Corpo d’ armata eritreo».
Alcuni giovani più audaci del paese, forse non conoscendo la sua vera storia, lo prendevano bonariamente in giro chiamandolo pubblicamente « Dum- dum», ma bastava un piccolo rimprovero, o uno sguardo maligno, da parte di qualcuno per far sì che la cosa non si ripetesse più.
Ne raccontava così tante di storie che, ogni volta che qualcuno si sedeva vicino a lui su una panchina del giardino pubblico o al bar, dove ordinava sempre un enorme boccale di birra ghiacciata, le modificava a suo piacimento e le faceva terminare sempre in modo diverso.
Lo incontrai verso la fine degli anni ’ 80, davanti alla Chiesa della «Madonna dei Raccomandati»: indossava un paio di pantaloni corti a fiori, una camicia viola stirata di fresco, un paio di sandali d’ infradito color nocciola. Sulla sua testa era appoggiato un cappello di paglia che si levava ogni qualvolta si addentrava nel racconto.
Ricordo ancora distintamente il profumo del suo dopobarba. Parlava un italiano dé modé, perché l’ aveva imparato quando era già adulto, usava i congiuntivi a modo suo e conosceva la Storia. Parlò anche a me della guerra, del colonialismo fascista e del fatto che gli Italiani avessero impiegato il gas nervino e i proiettili esplosivi durante la guerra.
Dopo aver bevuto il primo sorso di birra, cominciò a parlarmi della Seconda Guerra Mondiale dove aveva combattuto in mezza Europa indossando la divisa del X Battaglione d’ Assalto « M» e che, dopo aver seguito un corso di addestramento a Roma, fu inspiegabilmente spedito di nuovo in Africa con il grado di caporale. Puntualizzò, con enfasi, che dopo l’ 8 settembre 1943, se si fosse trovato in Italia non avrebbe aderito alla Repubblica di Salò perché non voleva collaborare con i tedeschi.
Fu catturato dagli inglesi, dopo una feroce battaglia nel deserto, che lo rinchiusero in un campo di concentramento fino alla fine della guerra.
Ascoltai il suo racconto senza interromperlo perché sapevo che gli dava terribilmente fastidio e rischiavo di essere apostrofato in malo modo.
Il timbro della sua voce aveva il dono innato d’ incantare l’ ascoltatore.
Rimasi in silenzio fino a quando non disse una cosa che m’ incuriosì talmente che la ricordo ancora, parola per parola, dopo circa trentacinque anni.
«Mi innamorai dell’ Africa a tal punto che decisi di rimanerci anche quando avevo la possibilità di tornare in Italia, puntualizzò con una punta di malizia nello sguardo, perché c’ era Khanysha, la figlia del vento».
Lo guardai dritto negli occhi senza osare chiedergli chi fosse Khanysha, ma non dovetti neppure domandarglielo perché aggiunse con un tono quieto, parlando dei fatti come se si fossero svolti il giorno prima.
«Khanysha è la donna che mi ha fatto scoprire l’ Africa attraverso i suoi occhi. Mi insegnò ad amare la sua lingua, il cibo che mangiava, l’ aria che respirava e il dio in cui credeva. Con lei, il cielo era sempre terso e non dovevo brandire un’ arma per incutere rispetto».
Non sapevo che cosa dire, anche perché avevo il timore d’ infrangere i suoi ricordi.
«Nel 1947, ricevetti un telegramma dall’ Italia che m’ informava che mio padre aveva avuto un incidente alla cava del gesso e che la mia famiglia aveva bisogno d’ aiuto».
I suoi occhi si riempirono di lacrime e continuò il suo racconto con un’ emozione che mi commosse.
«Prima di tornare in Italia, promisi solennemente a Khanysha che sarei tornato in Africa per sposarla, ma dopo alcuni mesi mi ammogliai invece con Maria Grazia.
I nostri genitori avevano stipulato un matrimonio combinato per risolvere i problemi economici della nostra famiglia.
L’ amore per l’ Africa mi è rimasto nel sangue e ci rimarrà per tutta la vita anche se non ci sono più tornato e forse mai vi tornerò».
«Dum- dum» frugò accuratamente nelle tasche dei suoi pantaloni corti, aprì un vecchio borsellino di coccodrillo e, dopo aver cercato accuratamente nelle taschine laterali, mi mostrò una vecchia foto che ritraeva la donna dei suoi sogni.
Guardai la foto con attenzione ma era così sciupata che era quasi impossibile riconoscere le sue sembianze.
S’ intravvedeva soltanto la sagoma di un’ africana davanti a una capanna di paglia.
«Dum- dum» si alzò, si aggiustò il cappello di paglia sulla testa, bevve l’ ultimo sorso di birra e, con un sorriso sulle labbra, aggiunse: «Se fossi ancora giovane, non esiterei un istante. Andrei a trovare la donna che ha cambiato il corso della mia vita».
Il rumore del motore di una macchina lo distolse dalla conversazione, rimise frettolosamente la fotografia nel suo portafoglio e alzò gli occhi in direzione di una «Fiat 600» che si fermò a pochi metri da noi.
« Adesso, le presento mia figlia!»
«Ne sarei onorato, Domenico!», risposi con affetto.
Quell’ uomo aveva toccato le corde della mia sensibilità.
Mi avvicinai alla signora che nel frattempo era scesa dall’ automobile e si stava accendendo una sigaretta. Rimasi letteralmente sconvolto quando la donna si girò verso di me e mi tese la mano, abbozzando un sorriso spontaneo.
«Piacere, io sono Khanysha, la figlia di Domenico!», disse la donna aspirando profondamente il fumo della sigaretta.
Risposi alla presentazione, senza proferire parola perché ero allibito dall’ aspetto fisico di Khanysha.
«Spero che mio padre non l’ abbia annoiato con le sue storielle africane!», aggiunge Khanysha, come se avesse intuito l’ imbarazzo in cui mi trovavo.
Aveva gli aspetti somatici tipici di una donna africana. Il vestito che indossava metteva in risalto una bellezza tipicamente esotica. I suoi capelli ricci nerissimi, raccolti accuratamente sulla nuca e le sue labbra carnose le davano l’ aspetto ribelle di una donna della savana.
«Dum- dum» si rese conto del mio disagio e scomparve nella macchina dopo avermi regalato un sorriso che è rimasto per sempre nella mia mente.
La storia di «Dum- dum» può risultare incredibile ai lettori del mio racconto perché, a volte, si fanno delle deduzioni che ci traggono in inganno.
L’ uomo che mi raccontò questa bellissima storia d’ amore dimostra che nella vita possono succedere cose impossibili.
«Dum- dum» aveva rinunciato a Khanysha, sposando una donna che non amava, ma era riuscito a mettere al mondo, per un inspiegabile gioco del destino, una figlia che portava, oltre che il nome del suo grande amore, anche l’ aspetto esotico della bellezza africana.