Era il 1988.
Ricordo con esattezza l’ anno in cui ho conosciuto Jean- Pierre- le- clochard perché coincide con l’ estate in cui vinsi una borsa di studio in Francia con il Ministero della Pubblica Istruzione.
Arrivai all’ alba a Montpellier, presi il primo autobus e mi recai all’ università. Lo intravidi quando passai davanti alla panchina che occupava ogni giorno ed ogni notte. Era un clochard qualunque fino al giorno in cui ebbi l’ occasione di conoscerlo personalmente e di parlare con lui.
Attendeva ogni giorno su quella panchina di legno, davanti alla mensa universitaria, e l’ abbandonava soltanto per andare ad adempiere ai suoi bisogni fisiologici impellenti. Quando si assentava, lasciava bene in vista il suo zaino militare stracolmo di effetti personali puzzolenti e stendeva sulla panchina un enorme fazzoletto sporco che teneva a debita distanza, chiunque avesse avuto l’ intenzione di occupare il suo "alloggio", ma che attirava inesorabilmente enormi sciami d’ insetti di ogni genere che emettevano un fastidioso ronzio.
Soltanto alcuni temerari piccioni osavano avvicinarsi alla fatidica panchina per beccare le briciole sparse in mezzo alla ghiaia e sul tappeto erboso del giardino.
Indossava sempre un passamontagna di lana beige che si abbassava sulla faccia durante la notte, forse per esorcizzare la paura. Un vecchio cappotto militare verde- oliva cui aveva strappato i gradi all’ altezza della spalla
sinistra, un paio di jeans logori e degli stivali neri che si metteva sotto la testa, a mo’ di cuscino quando dormiva, per timore che qualcuno glieli rubasse.
Ricordo distintamente che era il giorno di ferragosto quando gli parlai per la prima volta.
Ero andato a mangiare in una trattoria gestita da un abruzzese e mi accingevo ad andare a schiacciare l’ agognato pisolino pomeridiano nella mia stanzetta quando lo vidi per la prima volta in piedi.
Ero a Montpellier da quasi due mesi e Jean- Pierre- le- clochard mi avrebbe dovuto notare perché spesso mi fermavo davanti alla sua panchina e facevo finta di leggere un libro o una rivista per osservarlo.
Sembrava un capo Apache decaduto: si guardava attorno con circospezione e scrutava il giardino, guardingo, come se stesse per essere attaccato da un viso- pallido in agguato.
Spinto dall’ audacia e dalla curiosità che caratterizzano i giovani, mi avvicinai alla sua panchina con l’ intenzione di offrirgli le frittelle che Mario il ristoratore mi aveva dato a pranzo.
Mi guardò con diffidenza, si scrutò attorno per accertarsi che nessuno lo guardasse, poi allungò la mano destra e afferrò il sacchetto di carta, con la velocità di un crotalo, lo aprì, prese una frittella, l’ annusò e la ingoiò interamente senza neppure masticarla.
Svuotò il contenuto del sacchetto e, dopo aver mangiato tutte le frittelle, piegò accuratamente lo piegò in quattro, poi se lo infilò nella tasca laterale del cappotto che teneva abbottonato fino al collo, nonostante il caldo
asfissiante dell’ estate.
Mi osservò con degli occhi straordinariamente azzurri e, dopo essersi scrollato di dosso le briciole con entrambi le mani, mi disse in un francese impeccabile.
“ Vous n’ avez pas l’ air d’être un étudiant, Monsieur!”
Lo guardai con imbarazzo perché non mi aspettavo che l’ uomo parlasse un linguaggio così forbito.
“ Mi chiamo Jean- Pierre- le- clochard e sono uno studente, fuori corso, naturalmente…” aggiunse intuendo il mio malcelato imbarazzo e scoppiò a ridere fino alle lacrime.
Non riuscivo a capire il significato della sua risata isterica, perché avevo notato, durante i miei innumerevoli appostamenti, che non beveva bevande alcoliche come faceva la maggior parte dei clochards che affollavano la città.
Stavo per andare via quando Jean- Pierre- il- clochard mi rivelò il mistero della
sua permanenza sulla storica panchina ubicata davanti alla mensa universitaria.
“Mi iscrissi alla Facoltà di Lettere e Letteratura Francese all’ Università di Montpellier, dopo aver respirato il 1968 e creduto nella rivoluzione permanente. Studiai la filosofia, il latino, il greco, la storia dell’ arte… fino al giorno in cui morì mia madre. La sua scomparsa mi sconvolse a tal punto che non riuscii più a studiare… e scelsi deliberatamente di vivere su questa panchina per non perdere definitivamente il contatto con gli altri studenti universitari…”
Presi il coraggio su due mani e gli chiesi lapidario:
“Perché non è tornato a casa?”
“Non ci sono più tornato perché avevo promesso a mia madre di tornarci soltanto dopo essermi laureato.”
Ritornai a Montpellier nel 2000, per motivi di studio, e appena arrivato in città mi recai alla mensa universitaria con la speranza d’ incontrarlo.
La panchina era vuota.
Tre piccioni spennacchiati beccavano sulla ghiaia rovente del viale alberato, ma non trovai Jean- Pierre- le- clochard.
Dopo qualche giorno, incontrai per caso un cameriere turco che mi rivelò che Jean- Pierre- le- clochard era stato trovato morto sulla sua panchina durante la calura africana che nel 1999 uccise più di 15. 000 anziani in Francia.
Fu sepolto, senza funzione religiosa in una fossa comune perché era sprovvisto di documenti d’ identità.
Mi recai quasi quotidianamente al cimitero, dove era stato inumato, per rendere omaggio alla memoria di un uomo che tutti chiamavano Jean- Pierre- le- clochard e che visse trent’ anni della sua vita su una panchina per tener fede a una promessa che, suo malgrado, non era riuscito ad onorare.