Se sono diventato un (modesto) cultore di lingue straniere, e se sono riuscito, sul sito, a pubblicare, bene o male, alcune poesie in due o tre lingue oltre all'italiano, e in un paio di dialetti, ciò è dovuto anche al microcosmo che era, nella mia cittadina, il rione in cui sono nato e sono vissuto fino all'età di tredici anni.
La casa della mia infanzia e della primissima adolescenza si trovava esattamente al centro della via centrale di cinque strade parallele, realizzate sul finire dell'era fascista, in occasione dell'insediamento di un grosso stabilimento industriale, del quale quella via centrale portava e porta ancora il nome (che è anche quello della prima lettera dell'alfabeto greco) .
Quando ero ragazzino, le persone arrivate nel rione, dai dieci ai vent'anni prima da quasi tutta l'Italia (soprattutto centro-settentrionale) , erano molte, e forse superavano, in numero, i nativi. Sentivo parlare tanti dialetti (o più spesso l'italiano con varie inflessioni dialettali) , ed io, figlio di un padre di origine locale e di una madre di famiglia marchigiana, non sapevo bene quale fosse la parlata più adatta a me.
Ricordo il signor G. , genovese ( "Dove hai nascosto le palanche? " , mi diceva talvolta) , la signora B. , spoletina (che sosteneva che mia nonna "non capiva l'antifona" ) , i signori P. , atesini e senza figli, abitanti al piano superiore, la signora D. , che diceva di essere una nobildonna decaduta di Marina di Pisa, nella casa dirimpetto, il signor F. , un veneto amante di grappini e di belle donne, poeta a tempo perso, il cui appartamento aveva delle pareti in comune col mio, il signor B. , lucano, che venne un giorno a fare a pugni con un tale proprio sotto le mie finestre, il signor M. , bolognese, una figlia del quale si sarebbe poi sposata con un mio cugino, ed altre persone ancora.
I miei amichetti, coi quali giocavo dopo la scuola, erano toscani: R. , della provincia di Lucca, se ne andava da casa mia lasciandomi sottosopra tutti i giocattoli, e A. , di padre pisano e madre viareggina, era arrivato nella mia cittadina all'età di un anno, quando, nei primi anni Cinquanta, fu aperta una seconda grande industria (lo vedo ancora, ogni tanto: è architetto, professore, e continua a vivere nel rione) .
Mio padre, pur conoscendolo bene, non parlava mai il dialetto napoletano in casa, per cui, prima di andare a scuola, io non sapevo che cosa fosse; una volta, passeggiando con il mio genitore, vidi un gruppetto di ragazzetti che si esprimevano in modo strano e, non sospettando affatto che usassero il dialetto locale, dissi: "Papà, ma quei bambini sono arabi? "
L'abitare in quel rione, con le vie parallele e in teoria uguali, presentava anche il vantaggio di dovere aguzzare l'ingegno per individuare le minime differenze che comunque esistevano tra una via e un'altra, cosa che, leggendo Borges, ho scoperto poi essere anche un suo esercizio con due strade di Buenos Aires (quella nella quale abitava e un'altra adiacente) , un po' come Proust si mostrava affascinato, nella "Recherche" , dalla ricerca della differenza tra un biancospino con i fiori bianchi ed uno con i fiori rosa.
E' stato vantaggioso vivere in un microcosmo simile? Forse sì, se si dà credito ai risultati che, in un ambito molto più vasto, emergono dal libro "La Babele dell'inconscio" (Raffaello Cortina Editore) , degli psicoanalisti Amati Mehler, Argentieri e Canestri. D'altro canto, è indubbio che non avere, da piccoli, un chiaro punto di riferimento, non sapere esattamente a quale gruppo si appartiene, potrebbe portare, col tempo, a qualcosa di simile a ciò che accadde a Pessoa, cioè alla creazione di numerose personalità non in pace fra loro, per non parlare dell'invenzione di eteronimi. Forse è per questo che resto sempre saldamente ancorato al mio vero nome e cognome, nell'illusione di essere pirandellianamente un uno non destinato a frantumarsi in centomila personaggi diversi.