Tutto sommato era stata una bella giornata, almeno diversa dalla monotonia di tutti i giorni. La piccola si era divertita un mondo, felice di vedere tutta quella gente che affollava il mercatino e poi sazia di aver mangiato con golosità il bastoncino di zucchero a velo, impiastricciandosi tutto il viso fino agli occhi. Era veramente buffa e tutta appiccicosa e ciò provocò le risate di Nino, Rosalia ed Assuntina.
Arrivati a casa le due donne entrarono e Nino si voltò per andarsene al capanno, Rosalia gli chiese: “ Ninu chi fai? Nun resti pi cena?”
Lui con lo sguardo tristissimo rispose: ” Nun haju fami cchiù, picchì à iu manciatu chiddu pani ca’ meusa (milza), ma manciai maritata (con caciocavallo e ricotta)… e mi sazziai. A rumani…”
Se ne andò senza un saluto particolare, né un abbraccio, né un bacio sulla guancia come era solito fare… un atteggiamento più da amico che da fidanzato. Questo infastidì Rosalia perché anche se i suoi sentimenti per lui non erano cambiati, tuttavia la sua freddezza l’ aveva spiazzata. Era o non era la sua futura sposa? Borbottò chiudendo la porta: “ Otinni a capì ri li mà sculi, ti fannu nesciri sceccu (scemo)”.
Una volta arrivato al capanno, Nino si buttò sul letto vestito, fissando la finestra aperta, da cui si vedeva una luna piena splendente, che alta nel cielo illuminava tutta la campagna, restò così mentre la sua mente si affollava di pensieri e di dubbi. Amava quella ragazza dal primo momento che l’ aveva vista, quando lei era perdutamente innamorata di Saro, l’ aveva poi incontrata casualmente in quella piccola stazione, che fuggiva da una realtà scomoda e triste, poi ancora a Catania aiutandola a trovare la sua bambina. Le era stato accanto quando credeva che sua figlia fosse morta, dandole affetto e tanta forza e ancora l’ aveva difesa con tutta l’ anima dalla cattiveria della gente, dalla persecuzione di Biagio, ed ora era stanco di essere considerato soltanto un amico, una spalla su cui piangere. A lui non bastava più un amore privo di carezze e passione, privo di attenzioni e premure… Una lacrima spuntò dai suoi occhi tristi e per la prima volta diede sfogo al suo dolore. Ora lo poteva fare lontano da occhi indiscreti, in quanto non sia mai che un uomo pianga, se lo faceva veniva considerato un debole cioè una femmina.
Anche Rosalia salì nella sua camera per andare a letto, indossò una sottoveste di raso nera che la fasciava mettendo in risalto le sue morbide forme, diede uno sguardo veloce allo specchio che rifletteva la sua immagine, un viso giovane ma dai tratti tristissimi e poi si legò i lunghi capelli in una grande treccia, tuttavia, prima di coricarsi si affacciò per guardare il cielo stellato e si sorprese a pensare ad Antonino, quel giovane aveva qualcosa di insolito, se da una parte l’ attraeva dall’ altra la inquietava, oltre a questo vi era un’ altra cosa che l’ amareggiava, cioè la situazione che si era venuta a creare con Nino e questo non le piaceva. Non voleva assolutamente che la situazione degenerasse ancora, mettendo a rischio il suo futuro matrimonio.
Poi il suo pensiero si spostò sulla marchesa, chiedendosi, come tutti del resto, che fine avesse fatto…
Nel frattempo la nobildonna continuava la sua fuga con il suo misterioso accompagnatore, quando chiese a questi di potersi fermare per bere ad una fonte che si trovava sulla strada, l’ acqua sgorgava fresca da una pietra di marmo. L’ uomo acconsentì dicendole però di affrettarsi perché non avevano molto tempo. Carolina aveva pianificato tutto nei minimi particolari, anche una fuga improvvisa, nell’ eventualità che gli eventi fossero precipitati, aveva fatto sì che Biagio, proprio l’ uomo che la stava aiutando a fuggire, fosse pronto per la partenza, in qualsiasi momento, dopo che aveva attuato il suo folle disegno della morte del figlio. Tant’è che era riuscita ad avvisarlo in tempo, proprio quando il medico aveva deciso di informare i carabinieri. Poi era stato un gioco per lei uscire dalla sua stanza, infatti su una parete c’ era affisso un grande arazzo che raffigurava una battuta di caccia, in realtà nascondeva il passaggio segreto per scendere nei sotterranei, da cui dopo aver attraversato un piccolo rio, portava all’ aperto, permettendole così di fuggire indisturbata. Ma che ci faceva Biagio, il figlio di Donna Lucia con la marchesa? E che cosa c’ entrava lui con tutta questa losca storia?
Biagio conosceva bene Carolina, in quanto quando lei era stata cacciata dalla tenuta, per i primi tempi era stata ospite dei suoi parenti, ma quando questi si accorsero che era incinta, non la vollero più tra i piedi, allora lei con la sua maestria nell’ abbindolare con facilità il sesso maschile, aveva sedotto un vecchio marchese catanese facendosi sposare. In quell’ occasione aveva conosciuto Donna Lucia che frequentava spesso i salotti benestanti, perché, anche se non aveva un titolo nobiliare, era considerata una donna di grande rispetto e soprattutto era temuta per le sue pericolose amicizie.
Una sera in seguito ad un evento mondano, era stata invitata ed aveva portato con sé Biagio, da allora la loro conoscenza si era rafforzata grazie ai traffici illeciti e avevano mantenuto un rapporto costante e forte. A Biagio la marchesa serviva per i suoi affari e alla marchesa lui serviva per la sua indole criminale. Insieme erano proprio una coppia temibile e pericolosa.
Biagio spazientito si asciugò la fronte e le disse: ” Spicciati picchì nun avemu assà i tiempu, a varca jè già arrivata chi ci aspetta!”
Carolina risalì e continuarono il viaggio verso la costa. Nel posto dell’ appuntamento il mare rientrava sulla riva creando un’ insenatura ben nascosta, la piccola imbarcazione era già arrivata e attendeva l’ arrivo della fuggitiva. L’ uomo al timone stava dicendo all’ altro: ” Nun putimu cchiù stari cà picchì ‘ n à utru picca passanu li varche pi li tunni…”
Aveva appena finito di pronunciare questa frase che Carolina e Biagio arrivarono, svelti abbandonarono il carro e salirono a bordo.
La donna diede un ultimo sguardo al paese che stava per lasciare e pronunciò il seguente giuramento:” Giuro chi chistu nun jè ‘ n addio, riturnu comu jè vì eru chi mi chiamu Carolina…”
Così la barca prese il largo e presto sparì all’ orizzonte.
Intanto, dopo parecchi giorni da quei tragici eventi, nella stazione dei carabinieri si faceva il punto della situazione, i militari a rapporto erano tutti al cospetto del Comandante Calogero, il quale era infuriato come non mai. Aveva ricevuto un rimprovero dal suo superiore per aver lasciato fuggire la marchesa e per non aver ancora nessuna traccia seria da poter seguire. Il lavoro frustrante si era prolungato ormai da giorni e gli uomini erano stanchi e sfiduciati, inoltre non avevano avuto nessun aiuto da parte della gente, la quale anche se fosse stata a conoscenza di qualcosa si guardava bene dal parlare con loro, nel paese regnava l’ omertà sovrana e quindi nessuno aveva visto né sentito nulla.
Antonino Privitera si permise di esporre una sua ipotesi:” Maresciallo, e si a signura nun jè cchiù pi u paisi ma fujì u luntanu ri ccà? Forsi devi aviri quà lchi unu chi l’ aiuta…”
Il maresciallo non rispose ma era d’ accordo con Antonino, la marchesa non si trovava da nessuna parte, sicuramente doveva avere avuto dei complici. Concluse l’ incontro dicendo: “ Nuatri pi è sseri certi chi nun jè cchiù ccà, continuiamo l’ ndà gini, dù oppu virì mu…”
Ognuno tornò al proprio posto, mentre Antonino pensò di fare un altro giro di perlustrazioni intorno alla tenuta del barone, per poi proseguire anche nelle vicinanze della cascina. Aveva voglia di rivedere Rosalia e a lui non importava che fosse promessa a Nino ed era sicuro che sarebbe riuscito a portargliela via.
Convinto di ciò si diresse verso il maniero in compagnia di Finocchiaro, era il primo pomeriggio e il sole imperturbabile picchiava inesorabilmente sulle loro teste, costringendoli a fermarsi per asciugarsi il sudore che copioso scendeva dalla loro fronte. Non incontrarono anima viva fino al momento in cui attraversando un piccolo podere coltivato a viti non si imbatterono in un gruppo di braccianti che stavano vendemmiando, l’ uva era matura al punto giusto e pronta per essere raccolta. Gli uomini e le donne lavoravano di gran lena, mentre cantavano e si scambiavano anedotti locali. La loro voce si sentiva da lontano mentre intonavano un canto popolare:
E’ arrivata la vinnigna
La stagiuni di l’ amuri,
mentre spogghiamu la vigna
‘ nto me cori nasci ‘ n ciuri.
Stu ciuriddu nicu nicu,
manu manu s’ ingrannisci
ma stu cori non capisci
sudd’è amori oppuri no
E comu haiu a fa, e comu haiu a fa
Ca notti e ghiornu nun pozzu chiù sta
La testa gira, mi vota e furria
Comu girava na vota a mammà…
C’è ‘ mpicciottu ca mi vadda
‘ ntrignu ‘ ntrignu e poi ‘ m’ arriri,
mentri jncu li panara
mi lu duna ‘ mpizzuluni
iu m’ arrassu e iddu ‘ ncugna
tremu tutta e canciu fila
na stu cori tanti pugna
mi matteda ma pirchì?
E comu haiu a fa, e comu haiu a fa
Ca notti e ghiornu nun pozzu cchiù stà
La testa gira, mi vota e furria
Comu girava na vota a mammà…
All’ improvviso alla vista dei militari, smisero di botto di cantare e si guardarono uno con l’ altro. Cadde un silenzio tombale, mentre continuavano a raccogliere l’ uva. Un uomo, forse il capo si scostò la coppola e si avvicinò a loro: ” Salutamu a vuatri signori, circati quà lchi unu?”
Antonino rispose: “ Diciti beni e po’ essiri chi l’ avete vista…’ na fimmina ben vistuta… po’ ì esseri nun sula… idda jè fuggita jorna fa.”
L’ uomo sapeva bene a chi si stava riferendo ma fece finta di non capire, rispondendo: ” Iu nun vitti nuddu...”
Poi rivolgendosi agli altri chiese: “ Vuatri mancu aviti vistu… nun jè vì eru?” Era più una affermazione che una domanda, era implicita una minaccia del tipo fatevi i fatti vostri.
Gli altri assentirono non avendo il coraggio nemmeno di guardarli in faccia. A quel punto Antonino urlò: ” E bravi… che bì edda genti … nun vedono, nun sentono, loro ci sunnu e nun ci sunnu.”
Nessuno rispose alla sua provocazione, Antonino furioso continuò: “ Vuatri si nun parrati siti comu chidda assassina… nun aviti vriù ogna?”
Rassegnato dal loro mutismo si allontanò con Finocchiaro. Avevano fatto un altro pezzo di strada quando furono chiamati da qualcuno. La donna si guardava in giro con aria sospetta poi: ” Aspettate iu ‘ n arma (anima) sulu haju… e vogghiu moriri pi grazia du Signuri.” La guardarono, era soltanto una ragazza, ma lo sguardo fiero di una donna che sa il fatto suo.
Antonino chiese: “ Chi vuliti riri?”
” Iu haju sentito ‘ n pescatore, chi stava dicendo a ‘ n à utru… mi avi pagato beni… haju sulu purtari a varca là… idda jè nzemi a Biagio.”
Antonino:” Cu jè chistu pescatore?”
Franciscuzza così si chiamava la donna, abbassò lo sguardo vergognandosi di quello che stava per fare e poi con un filo di voce disse: ” Jè me patri”. Antonino le chiese: ” Comu mai aviti deciso ri parrari…”
Lei: “ Vi u rittu… vogghiu ruormiri carma (tranquilla) cu a cuscenza pulita.”
Il carabiniere continuò: ” Ma ù ora sapiti unni s’ attrova vostru patri?”
Franciscuzza con la morte nel cuore rispose: ” Jè turnatu ruoppu chi a luna si ‘ mmucciata, lu gaddu (gallo) avia sulu (appena) cantatu e ù ora rù ormi…”
Antonino si rivolse a Finocchiaro dicendogli: ” Annamu apprima chi quà lchi unu u avvisi.” Lasciarono la ragazza in mezzo alla via e velocemente si diressero in paese, dovevano avvisare il maresciallo di quello che avevano scoperto ma all’ ultimo momento Antonino disse: “ Nun avemu tì empu pi iri pi caserma, avimu fari pi primura.”
Così dicendo s’ incamminarono lungo la fila di vecchie case, addossate una con l’ altra, dai cui balconi era appesa la biancheria che profumava di liscì va (cenere vegetale mista ad acqua) e dal bianco splendente. Mentre passavano, gente curiosa spiava dalle fessure socchiuse, domandandosi che ci facessero i carabinieri da quelle parti e soprattutto chi stessero cercando. La casa del pescatore si trovava in mezzo a due edifici fatiscenti circodati da agrumeti, i due carabinieri si avvicinarono all’ abitazione e bussarono insistentemente al vecchio portone. Dall’ interno rispose una voce di donna:” ‘ N momentu… chi primura… staiu arrivannu…”.
La sua faccia sorpresa nel vedere i due uomini, la diceva tutta, la povera donna era sicuramente all’ oscuro di tutto.
Chiese: ” Comu mai i carrabbineri a casa mo? Jè successu qualcuosa a Ciccina (così chiamava amorevolmente la figlia) mo? O Maronna santa…”
E si tappò la bocca per non urlare.
Antonino:” No… no stai carma nun jè successu nenti a vuatri figghia… semu cca ppi vostru maritu. Jè rintra, vì eru? Avimu ri parrari cu iddu.”
All’ improvviso sentirono dei rumori al piano di sopra, svelti scansarono la donna e salirono su per le scale. Il tempo di vedere l’ uomo fuggire dalla finestra che dava sui campi. Saltarono velocemente il parapetto e si trovarono ad inseguire il sospettato in una frenetica corsa. L’ uomo sembrava avere le ali ai piedi, intanto Antonino lo intimava a fermarsi: ” Firmati o ti agghica (arriva) ‘ n scupittata.”
Ma le sue minacce non fecero effetto, anzi sembrava che corresse ancora più velocemente, infilandosi come una lepre fra i filari di ulivi. Poi arrivarono su un altura dove incrociarono un grande gregge di pecore, l’ uomo molto abile si districò come un cerbiatto inseguito da una tigre, evitando gli animali che tranquilli brucavano l’ erba. Antonino e Finocchiaro cercarono di prendere fiato: ” Chi figghiu ri arrusa…” Urlò Finocchiaro e continuarono l’ inseguimento fino a quando giunsero su uno strabiombo sul mare.
A quel punto Sasà, questo era il nome del pescatore, si girò verso i due urlando: ” Si fati ‘ n autru passu iu mi jettu intra u mari…”
Antonino per niente preoccupato gli rispose in tono di sfida: ” E si… fatti ‘ n bagnu, cu chistu cà vuru jè chiddu chi ci voli.”
Sasà non apprezzò l’ ironia del carabiniere e con un salto si buttò nel vuoto, Antonino non si aspettava un gesto così eclatante e corsero sul dirupo guardando giù fra gli scogli, il corpo esanime del pescatore era riverso su uno di essi con il cranio fracassato. Antonino ripeteva in modo ossessivo: ” Ma picchì u fici? Ri cù osa avì a scantu?”