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Storia di paese (L’incendio) 23 episodio

Fantasy

Per il funerale erano arrivati anche i cugini Nardina e Lelè, i quali, durante il drammatico ultimo saluto a Totuccia, si occuparono della figlia di Rosalia. Il corteo funebre ebbe inizio dalla cascina verso le ore diciotto, non si sarebbero celebrate messe, per la chiesa le persone morte tragicamente nell’ ultimo atto della loro vita, non erano considerate in grazia di Dio e pertanto, veniva impartita loro solo la benedizione e recitate tutte le preghiere necessarie affinchè il Signore le potesse accogliere nella sua infinita misericordia.

Camminavano lentamente dietro il carro, sulla bara, Rosalia aveva deposto solo una rosa bianca, segno per lei della innocenza rubata alla madre fin da quando era una fanciulla al servizio dei baroni. Le donne vestite a lutto piangevano in accorati lamenti e grida di dolore, come era uso in quei tempi anche se non erano parenti del defunto.

Giunti al piccolo cimitero, iniziò la sepoltura, il terreno scavato da poco odorava d’ erba appena tagliata, fu deposta la bara mentre il sacerdote recitava insieme ai presenti le ultime orazioni. Rosalia fissava quella cassa e desiderò essere lei al posto della madre per porre fine all’ immenso dolore che le straziava l’ anima. Alla fine, prima che il custode del cimitero posasse la prima manciata di terra, Rosalia si inginocchiò e disse: ” Matri mo, a mali sorte avi vulutu cu a meu mi lassasti sula pi chista vituzza a suffriri, e iu ù ora comu fazzu sì enza ri ‘ te? A chi agghiu a ciamari matri? Iu nun ci a fazzu, portami cu te pi sempri…”

E così dicendo si aggrappò con tutte le sue forze alla bara, Nino la tirò su e la strinse forte a sé, mentre la terra copriva per sempre il feretro. Dopo che tutte le persone presenti le fecero le condoglianze, per ultimo si avvicinò Don Vincenzo che affranto, si rivolse a Rosalia dicendole: ” Tu nun si sula, ci sunnu iu ù ora e pi sempri, mi capisti? “

Ma Rosalia sembrava persa in un mondo tutto suo e guardando a Nino gli disse: ” Annamu a casa matri mi aspietta.”

Nino insieme ad Assuntina sorressero Rosalia fuori dal cimitero, quando Nino vide che poco lontano c’ era Biagio che aveva assistito alla cerimonia senza farsi vedere e disse fra sé: “ Dià vulu chi autru vvoi? A morti so’? E si vvoi chistu, apprima e aviri ammazzari a meu.”

Arrivarono a casa, ma non era più la stessa cosa, il vuoto che aveva lasciato Totuccia era palpabile, si poteva respirare solo angoscia e tormento, tuttavia Assuntina aveva la sensazione che il suo spirito non se ne fosse ancora andato ma era lì con loro, seduta sulla panca vicino al caminetto che la guardava sorridendo mentre cuoceva i fagioli nella pignata di terracotta.

Intanto in paese, l’ omicidio di Totuccia aveva scosso un po’ le coscienze e tutti sembrano addolorati per l’ accaduto, tuttavia serpeggiava nell’ aria il terrore per quell’ assassino che circolava liberamente fra loro. E la diffidenza che provavano uno con gli altri era aumentata a dismisura. Si guardavano tutti con sospetto e si controllavano a vicenda, le donne uscivano solo se accompagnate e gli uomini, per difendersi si armavano di piccoli coltelli. L’ unica a non aver paura sembrava essere Ninetta, lei aspettò che facesse buio e sgusciò fuori casa come un topo, ammantandosi fino agli occhi e si diresse al vecchio rudere abbandonato.

Era lì l’ uomo di ghiaccio che l’ aspettava mentre con un coltellino si puliva le unghie, appena la vide le disse: “ Purtasti cchiù sordi? Almì enu u doppio…” Ninetta: ” Si… siii, tuttu chiddu chi mi aviti addimannatu…”

Come la volta precedente controllò il denaro e poi sparì fra gli alberi. Ninetta si guardò in giro per vedere se qualcuno l’ avesse notata e poi svelta svelta ritornò a casa.

Il suo bambino dormiva placidamente, lei si svestì per andare a letto, poi si spazzolò i suoi lunghi capelli neri e ricci e guardandosi allo specchio disse: ” Chi avi idda cchiù ri meu, iu sunnu ancù ora bedda comu na rosa intra u iardinu mo.”

Nella stanza da letto aveva preparato un altarino con una grande foto del marito Saro, intorno immagini sacre e ceri di ogni grandezza, ne lasciava sempre qualcuno acceso per onorare quel marito infedele eppure amato fino alla fine. Poi prima di andare a letto era solita sedersi di fronte alla sua foto e fare lunghi monologhi. Così anche quella sera: ” Maritu miu, avi vistu ri cù osa sunnu capaci iu, té lu rissi… ma tuni nun meu datu ritta.”

Poi accese un cero e si coricò, si addormentò profondamente e non sentì i passi di qualcuno che era entrato furtivamente nella stanza dove dormiva insieme al piccolo, questi prese in braccio il bambino e fece rovesciare volutamente il cero sull’ altarino e fuggì. La candela provocò un incendio che si propagò in un baleno, la fiamma bruciò la tovaglietta di lino e poi la foto di Saro con tutti gli altri oggetti. Ninetta si accorse del fuoco solo quando il fumo invase la stanza soffocandola, allora si svegliò tossendo e subito pensò di prendere il figlio ma non trovandolo nella culla, iniziò ad urlare e a guardare dappertutto, mentre le lingue di fuoco, ormai divoravano velocemente ogni cosa, anche il letto. Allora terrorizzata gridò aiuto a più non posso, poi sfinita cadde priva di sensi sul pavimento mentre il soffitto improvvisamente cedette seppellendola.

L’ uomo con il bambino in braccio si fermò davanti al piccolo convento di Santo Spirito che ospitava una decina di frati, bussò insistentemente al portone, poi quando finalmente sentì che qualcuno che dall’ interno gli rispose: “ Pi amori ri Diu, chi fu?”

Lasciò il piccolo per terra e si volatilizzò come un fantasma. Il frate Bernardino trovò con grande stupore un bimbo spaventato ed infreddolito e disse: ” E tuni chi ddà fari ccà? Chi fu chistu mischinu chi ti lassò mortu ri friddu?”

Detto questo chiamò tutti gli altri frati avvertendoli.

Nel frattempo le fiamme avevano invaso tutta la casa di Ninetta e i paesani svegliati dal frastuono, erano accorsi in aiuto ma inutilmente avevano cercato di spegnerlo, tutti erano sconvolti, ormai in quel piccolo paese non c’ era più pace, eventi terribili erano accaduti in brevissimo tempo lasciando sbigottimento, incredulità e soprattutto tanta ma tanta paura. Quando ormai l’ incendio si era consumato, quello che restava di quella casa, dove un tempo vivevano i sogni per un futuro d’ amore e di gioia, era soltanto un mucchio di cenere e di ricordi bruciati. Gli uomini accorsi entrarono dentro e trovarono i resti carbonizzati della povera Ninetta, ma non c’ era traccia del bimbo. Guardarono in ogni angolo ma senza alcun risultato…

Anche il maresciallo era stato avvertito e si era affrettato a recarsi sul posto, preoccupato per l’ evolversi di tutta quella brutta faccenda, adesso le cose si complicavano di più, un sacco di domande gli frullavano in testa, com’ era scoppiato l’ incendio? Era stato accidentale o doloso? Erano tutti quesiti a cui avrebbe presto dovuto dare delle risposte. Una delle amiche fidate di Ninetta piangendo gli disse: ” Iu i avì a rittu nun addumari i ceri supra u comò a notti picchì può esseri piriculusu ma idda nun ddà sintiri. E dù oppu chi fini fici u picciriddu? “

Il maresciallo Calogero non sapeva cosa rispondere, fece loro altre domande e poi ritornò in caserma per fare il punto della situazione.

Il barone dopo il funerale di Totuccia, tornò al maniero e fece chiamare subito il suo braccio destro il vecchio e fedele Liborio, ma nonostante lo cercarono per tutta la tenuta, di costui non c’ era traccia, questo comportamento non era abituale, infatti ogniqualvolta che si allontanava lo avvertiva. Soltanto a notte fonda lo sentì arrivare e chiudersi nella sua stanza, avrebbe voluto andare a chiedere spiegazioni ma non lo fece, aspettò l’ indomani. Dopo una notte insonne accanto al fuoco e pensando a Totuccia ed alla sua tragica morte, decise che non si sarebbe dato per vinto se non avesse trovato il colpevole.

Verso l’ alba scese nella sala da pranzo dove l’ attendeva già la sua fidata Cicca con la colazione, ma rifiutò di mangiare qualsiasi cosa, aveva lo stomaco chiuso e un nodo alla gola che non gli permetteva neanche di deglutire. La cara domestica gli disse: ” Baruni, aviti manciari qualchi cù osa, jè ri aieri chi nun aviti tuccatu nenti…”

Lui invece le chiese: ” Cicca otinni a chiamari Liborio chi haju parrari:”

La donna rispose: ” Comu vuliti…”

E seguì l’ ordine del barone, Liborio arrivò quasi subito e si presentò davanti a lui chiedendo: “ Sunnu ca, ai vuatri cumanni.”

Don Vincenzo gli domandò subito: ” Unni si statu astanotti, t’ haju ciauratu (sentito) turnari tardu.”

E lui: ” Haju ciauratu r’ i scrusci chi arrivavanu ri stadda (stalla) e sunnu annanu pi virì ri.”

Dopo questa spiegazione che non convinse del tutto il barone, gli disse: ” Haju attruvari cu avi ammazzatu a Totuccia e tuni meu aiutari..”

Liborio: ” Lu sapiti chi iu ci sunnu sempri cu vuatri.”

Poi decisero il da farsi e più tardi uscirono con il carro, per prima cosa il barone voleva andare alla cascina da Rosalia per vedere come stava la figlia e la nipote.

Nel frattempo in convento, dopo che Padre Bernardino aveva chiamato a raccolta tutti i frati facendogli vedere cosa aveva trovato davanti al portone, scoppiò un’ accesa discussione su quello che avrebbero dovuto fare. Alcuni era dell’ avviso di portare il “ trovatello” dai carabinieri, altri invece pensavano che forse potevano trovare da soli chi avesse fatto quell’ insano gesto di abbandonare il piccolino e quindi senza coinvolgere tutto il paese.

Prevalse quest’ ultima soluzione, poi pensarono a come avrebbero dovuto chiamare il bambino, il quale avendo più o meno la stessa età della figlia di Rosalia non era in grado ancora di parlare. E siccome l’ aveva trovato padre Bernardino decisero che aspettava a lui scegliere il nome da dargli. Il frate proferì che avvicinandosi la festa di Sant’ Antonio Abate non c’ era nome più appropriato che quello di Antonio.

Il convento essendo ubicato su una collinetta rivestita da una folta vegetazione, era praticamente invisibile al resto del paese e per questo avrebbero potuto nascondere tranquillamente la presenza di “ Antonio” tra le mura religiose.

Un’ altra considerazione da fare era che essendo isolati, venivano a conoscenza di quello che accadeva in paese, solo quando scendevano giù per acquistare beni di prima necessità, ed erano veramente poche le volte, in quanto essi producevano da soli quasi tutto ciò che gli necessitava: dagli ortaggi, alla frutta, la farina, l’ olio ecc.

Quindi erano all’ oscuro di molti avvenimenti, fra cui dell’ incendio scoppiato nella casa di Ninetta e la sparizione misteriosa del figlio. Al contrario dei frati invece la notizia della morte di Ninetta si era sparsa velocemente in tutte le vie del paese, giungendo fino alla cascina. Assuntina l’ aveva saputo dal pastore Accursio, il quale era passato per portare il latte di capra per la figlia di Rosalia.

Questi agitato più del solito: ” Assuntina sapisti cù osa jè successu? ‘ Na cù osa terribili, pigghiau focu a ri casa ri Ninetta e idda jè abbrucià ta viva, mentri u figghiu nun s’ attrova… nun tè ni cchiù paci chistu paisi.”

A questa notizia la donna restò molto turbata, c’ era qualcosa di strano in tutti questi avvenimenti agghiaccianti, sicuramente un filo coduttore terrificante li accomunava tutti e dietro questi fatti, c’ era una mente criminale che faceva il burattinaio.

Le rispose: “ Puvuredda famigghia distruggiuta, ma u picciriddu chi fini fici?”

Accursio: “ Nun lu sacciu… e nuddu u sapi.”

Rosalia aveva sentito parlare la zia con il pastore di una disgrazia e preoccupata le chiese: “ Chi ti disse u picuraru?”

La zia le raccontò ogni cosa e la nipote rispose: “ Ninetta avì a ‘ n odiu pi mia ma iu nun odiavu a nuddu e nun vulia chi succediu chiddu chi jè successu…” Assuntina guardò la nipote con grande affetto, sapeva che Rosalia aveva un cuore grande e non era capace di fare male nemmeno al più piccolo essere vivente.

Poi le disse: ” Vè ni cu mia chi mi dai ‘ na manu a arricù ogghiri i caccioffula chi stasira li vogghiu cò ciri. Li vogghiu fari ammuddicati.”

Gliela aveva chiesto per farla distrarre e farla stare un po’ all’ aria aperta, non poteva che darle giovamento. I carciofi che voleva fare Assuntina erano una ricetta tipica siciliana con pangrattato, pecorino, sale, pepe, olio e un limone, molto semplice da preparare ma molto appetitosa, inoltre, piaceva moltissimo anche a Nino.

Rosalia prese in braccio la figlia ed insieme alla zia si avviarono nei campi, l’ aria di maggio era satura dal prufumo di rose che proveniva da due filari di questo meraviglioso fiore, che faceva da divisorio dal resto della tenuta coltivata ad ortaggi. Erano dai colori smaglianti, dal rosso vellutato, al giallo, al rosa perlato, sfumate e poi infine bianche. A Rosalia salì un groppo in gola in quanto era stata Totuccia a volere questo meraviglioso roseto, lei amava le rose e in questo mese dedicato alla Madonna, ogni giorno era solita fargliene dono, portandole alla piccola “ Conicella della Madonna delle Lacrime” che si trovava proprio alla fine della loro proprietà, sulla strada che portava alla pineta.

Rosalia si rivolse alla zia che silenziosa le camminava accanto: “ Tuni otinni avanti chi iu portu i rose a la Maronna comu facì eva me matri, nun vogghiu chi a Biniditta avi ristari sì enza i ciuri, pi diri chi idda nun c’è cchiù…”

Raccolse delle rose gialle, il colore preferito di Totuccia e con la piccola si diresse alla conicella. Una volta arrivati sistemò i fiori in un vaso di terracotta che era posto davanti alla piccola statua e inginocchiandosi recitò: ” Bedda Matri r’ unni siti, quantu titulu c’ aviti, cu stu Bamminu c’ aviti ‘ nbrazza cunciritimi sta grazia: ‘ a grazia di l’ arma, ‘ a saluti di lu corpu, ‘ u pirdunu di piccati e la divina e santa pruvvirenza…

Vergini e Matri, ‘ un n’ abbannunari ‘ nta bisogni e nicissità, figghi vi semu e vui ni viniti Matri, n’ at’ a pruvviriri e n’ at’ a cunsulari: li grazi nicissari ‘ n aviti a fari!”

E poi scoppiò in un pianto a dirotto, la figlia guardava la mamma piangere e come se qualcuno gliele avesse detto, le si avvicinò e chiamandola: ” Mamma… mamma…”

Con la sua piccola manina le accarezzò il viso bagnato. Rosalia intenerita dal gesto della figlia l’ abbracciò forte dicendole: “ Tuni si a ricchizza meu.”

E aggiunse: ” Amuninni chi a zia aspietta a nuatri.”

Dopo aver raccolto i carciofi e tornarono a casa ebbero la sorpresa di trovare qualcuno che le aspettava, era il barone con Liborio. Assuntina non voleva parlare con colui che seppure aveva amato sua sorella come non mai era stata la causa della sua sofferenza e chissà forse anche della sua morte.

L’ aggredì: Vuatri chi ci faciti ccà, itivinni a moriri pi mare si no vi scupittu…”

Don Vincenzo non si arrabbiò di fronte all’ atteggiamento ostile della donna ma con voce pacata le disse: ” Non vogghiu nenti da vuatri sulu sapiri comu stavi Rusalia, e pi vi diri chi nun avirrò paci si nun attruovo l’ assassino ri Totuccia.”

Assuntina: ” Beni aviti rittu chiddu chi aviavu riri, aviti visto a Rusalia e ùò ra itivinni.”

A quel punto l’ intervento di Rosalia spiazzò tutti: ” Uora chista storia avi finiri, trù oppu lacrimi ci foru, trù oppu mali, vogghiu chi matri mo ripuosi pi paci. Nun sunnu cchiù ‘ n picciridda chi suffriva pi lu mancari ri u patri, ù ora sunnu ‘ n fimmina cu ‘ na figghia e capisciu chi contru u destinu nun si po’ fari nenti, ognuno ri nuatri avi sbagghiatu e arreti nun si turna…” Poi rivolgendosi al padre gli disse: ” Trasiti, chi nun si jè visto mai chi lassamu ‘ n cristianu fuora a casa pi parrari.”

Ad Assuntina non restò altro che accettare la volontà della nipote e quindi fece strada al barone e a Liborio.

Si sedettero nella grande cucina, Assuntina versò nei tipici bicchierini di ceramica il limoncello preparato da lei e Totuccia. Il barone e Rosalia erano seduti di fronte, si scrutavano quasi come se volessero leggersi nel pensiero, lei avrebbe voluto sapere tante cose ma la morte della madre era così vicina che non se la sentiva di ascoltare altri fatti che la potevano fare stare male. D’ altra parte il barone avrebbe voluto dirle che le voleva bene anche se non aveva avuto l’ opportunità di starle vicino e di vederla crescere. Si fermarono ancora per un po’ a parlare di tutti gli avvenimenti che erano accaduti ultimamente e lui promise alle due donne che avrebbe scoperto chi aveva ucciso Totuccia. Al contrario il suo fedele Liborio stava in silenzio ascoltando, ma sembrava non mostrare il più piccolo interesse alla faccenda, tant’è che Assuntina gli chiese: ” E vuatri? Nun diciti nenti, Totuccia vi vulia beni, nun vi rari diluri a so morti?”

Lui senza scomporsi più di tanto: ” Iu sunnu ri pocu palò ri, fazzu li fatti.” Questa sua risposta lasciò tutti sorpresi, in quanto aveva un tono diverso di quello che abitualmente usava, gentile e paziente, invece era freddo e metallico.

Prima che andassero via, arrivò Nino e Rosalia disse al padre: ” Jè giusto chi u sapiti, chistu jè Nino u’ me futuru maritu.”

Don Vincenzo: ” Si jè chistu chi vvoi, sta beni puru a mia.”

Dopo che se ne furono andati Assuntina iniziò a cucinare i carciofi mentre la nipote si intrattenne un po’ con Nino, il quale aveva saputo anche lui di Ninetta ed era sempre più preoccupato per la sorte di Rosalia, infatti le disse: ” Rusalia tuni mi a stari a sì entiri, nun nì esciri cchiù ri sula… ‘ n peri peri ci sta ‘ n pazzu..e nun vogghiu chi ti facci du mali, capisti?”

Lei: “ Iu sacciu abbadari a mia stissa.”

Nino sapeva che non avrebbe mai ascoltato nessuno caparbia com’ era e si dovette rassegnare al suo carattere cocciuto.

Continuarono a chiaccherare un altro po’ giocando con la piccola, quando a Rosalia sembrò che fosse arrivato il momento per confidargli cosa aveva trovato nella sacca che si era portata a Catania, cioè la lettera di donna Lucia con la chiave e concluse dicendo che molto probabilmente era quello che cercava Biagio. A questa notizia Nino tirò un sospiro di sollievo in quanto credeva che se Biagio avesse ottenuto la missiva li avrebbe lasciati in pace una volta per tutte. Quindi entusiasta le disse: “ E quannu aspiettavi pi dì ciri? Chista jè ‘ n bedda nitizzi, runi a mia a lì ttira chi ddà pù ortu.”

Questo era ciò che Rosalia temeva, non si fidava del figlio di Lucia, e se non gli bastava avere la chiave? Considerando che se lei era divenuta l’ unica erede designata dalla madre, avrebbe potuto ucciderla per venire in possesso di tutta la sua ricchezza.

Anna Rossi 05/05/2021 07:03 1 627

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
La riproduzione, anche parziale, senza l'autorizzazione dell'Autore è punita con le sanzioni previste dagli art. 171 e 171-ter della suddetta Legge.

I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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Commenti sul racconto Commenti sul racconto:

«Anche Ninetta abbandona il romanzo ed esce di scena con un altro giallo che l’autrice ha creato ad arte... Un incendio doloso ha messo fine alla sua vita, ma almeno non ha ucciso il suo bambino. Ma ci sarà lei dietro le morti di Saro e di Totuccia? Penso di sì... ma la situazione non è del tutto chiara a questo punto. Una cosa è chiara... la morte di Totuccia ha riavvicinato definitivamente la povera Rosalia al padre, il barone... barone che adesso non si darà pace fino a quando non avrà trovato l’assassino della donna che ha tanto amato. Ma l’ombra di Biagio è sempre presente... sarà lui che ha provocato tutte queste inaspettate morti? Giallo nel giallo, che solo leggendo le prossime vicissitudini verrà risolto... forse...
Bellissimo»
Giacomo Scimonelli

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