Mi ricordo che quella sera d’ estate non volevo uscire perché faceva molto caldo e, soprattutto, perché c’ erano troppe zanzare in giro per il mio temperamento. Soffrivo e continuo ancora oggi a soffrire segretamente di entomofobia, un’ avversione particolare nei confronti degli insetti e in modo specifico delle zanzare, insetti che odio letteralmente.
Verso sera, comunque, dopo essermi spalmato ogni centimetro della pelle con unguenti alla citronella, presi il coraggio con due mani e mi affacciai fuori di casa.
La scena che mi si presentò davanti agli occhi era spettacolare: Francesco dormiva serenamente sulla sua minuscola sedia di legno.
Dalla sua bocca socchiusa proveniva un russamento sibilino, molto simile a quello del vento che fischia tra gli alberi spogli di un canneto.
La strada era deserta: c’ erano soltanto un paio di gatti spelacchiati che riposavano beatamente ed in lontananza si sentiva un cane che abbaiava sommessamente alla luna.
Istintivamente, sentii il bisogno di svegliarlo, ma rimasi a debita distanza per rispettare il riposo di un uomo che rispettavo moltissimo.
Durante la Resistenza, aveva combattuto con la gloriosa «Brigata Majella», poi, dopo la Liberazione dell’ Italia dal nazifascismo, aveva lavorato fino all’ agognata pensione in una miniera di carbone in Belgio.
Sembrava un bambino che giocava in un prato.
Improvvisamente, l’ uomo aprì i suoi occhi trasparenti, alzò la testa e mi disse: «Sergio, non ti ho mai raccontato la storia di Emilio?».
Al «Vico di Mezzo», strada centrale di Amardolce, tutti conoscevano le sue storie, ma io feci finta di non conoscerla per non turbare la sua rinomata permalosità. Era molto suscettibile e bastava un niente per alterare il suo umore.
«Era il 21 aprile 1945. La Brigata Partigiana Majella entrò a Bologna senza sparare un colpo!».
Francesco era pressoché analfabeta, ma aveva il dono di memorizzare tutto quello che gli succedeva attorno.
Ometteva di specificare, in buona fede, che insieme alla Brigata Maiella erano entrati nella città felsinea anche le unità alleate del 2°Corpo Polacco dell’ 8a Armata Britannica, della Divisione USA 91a e 34a, i Gruppi di combattimento Legnano, Friuli e Folgore.
La sua, era una narrazione genuina degli avvenimenti bellici a cui aveva partecipato con straordinario entusiasmo e dedizione, anche se quando raccontava le sue storie ometteva dettagli importanti.
«Eravamo su un camion militare inglese e stavamo attraversando Via Indipendenza. La folla era in delirio e ci acclamava come i salvatori della Patria. Pensa un po’ che vicino a me, c’ era anche tuo padre. Era un brav’ uomo, anche se era molto taciturno. Parlava di rado e quando lo faceva rifletteva a lungo prima di proferire parola».
Mio padre, Melchiorre Aronne Angelo, è morto nel 1974, a sessant’ anni, e a dire il vero, a causa del suo carattere particolarmente riservato, non mi ha mai parlato della Resistenza forse anche perché ero ancora un adolescente.
Le storie che continuo a scrivere sulla Guerra di Liberazione abruzzese mi sono state raccontate da mia madre, che a differenza del marito, per fortuna, era molto loquace.
« Sul camion, oltre a me e a tuo padre, c’ erano Aleksander Pesterley, detto Shura, il vicecomandante Domenico Troilo ed alcuni partigiani del Gruppo Patrioti della Majella. Ad un angolo del mezzo militare, c’ era un uomo non più giovanissimo che guardava fuori con tristezza. Una bella persona. Indossava un paio di occhiali tondi e il suo viso era quello di un uomo di cultura. Al suo fianco, era appoggiato un M. G. che guardava con spiccato disinteresse. Quell’ uomo mi trasmetteva serenità, anche se in quel particolare periodo storico, la parola serenità era praticamente bandita dal vocabolario italiano. Per attaccare bottone, gli chiesi una sigaretta. L’ uomo frugò nella tasca della sua uniforme verde oliva e me la diede, con una grazia oserei dire quasi aristocratica. Accesi la sigaretta e guardai fuori del camion. Vedi una lunga fila di camion e jeep, stracolmi di partigiani armati di fucili e mitra, che sfilava lentamente sulla strada cittadina. Alcuni giovani volontari, affacciati ai finestrini dei mezzi militari, sventolavano delle bandiere rosse ed intonavano L’ Internazionale Socialista.
L’ uomo misterioso mi disse con un accento spiccatamente sardo le seguenti parole: « Che ne sarebbe della civiltà del mondo, se l’ ingiusta violenza si potesse sempre imporre senza resistenza ?».
Sulla guancia di Francesco fece capolino una grossa lacrima.
« A proposito, hai letto il libro Un anno sull’ Altopiano?», mi chiese il vecchio con una delicatezza sorprendente per un uomo rude come lui.
A quel punto della discussione, feci finta di non aver ancora letto il romanzo per non guastare il proseguo del racconto.
« Non ho ancora fatto in tempo a leggerlo, ma ho visto il film alla televisione», gli risposi sornione.
Mi aveva raccontato almeno dieci volte quella storia ed ogni volta che me l’ aveva narrata, aveva cambiato il finale a suo piacimento.
« Il sardo che mi ha offerto la sigaretta su quel camion militare era Emilio Lussu, lo scrittore. Figurati che è stato anche ministro dell’ Assistenza post- Bellica».
Non so se la storia di Francesco sia realmente vera, ma non possiamo negare che Emilio Lussu sia stato ministro del governo Ferruccio Parri dal 21 giugno al 10 dicembre 1945, per cui potrebbe essere stato (fortuitamente) presente su quel camion militare inglese il 21 aprile 1945 a Bologna.
A volte, sospetto che la storia di Emilio Lussu, romanziere che Francesco ha idealizzato per motivi prettamente narrativi, sia stata intenzionalmente architettata da lui per dare un tocco di classe alla Resistenza perché, come scrive Robert Anson Heinlein, «una generazione che ignora la storia non ha passato… né futuro».
Qualche anno dopo, ho letto un articolo sullo scrittore sardo che confermava appieno l’ aforisma che Francesco mi aveva ricordato quella sera d’ estate ad Amardolce.