La mia nonna pesarese, oltre a un fratello, aveva una sorella, maggiore di lei di due anni.
Si era trasferita a Napoli quando mia nonna stava ancora a Pesaro, negli anni Trenta, perché, dopo che il marito l'aveva abbandonata, lasciandola sola con una figlia piccola, per crearsi una nuova vita al di là del mare (l'Adriatico), in quella terra che da poco tempo era diventata Jugoslavia, la mia prozia non si era scoraggiata e aveva trovato un altro uomo, vedovo mi pare, pure lui con una figlia. Era costui un bravo musicista e, dopo essere stata per un breve periodo a Taormina, la coppia, con le bambine, si era trasferita a Napoli, dove il compagno della sorella di mia nonna lavorava nel prestigioso Teatro San Carlo (cercando di mostrarsi degno, immagino, nel suo piccolo, della presenza in quel luogo, più di cento anni prima, del pesarese forse più famoso, Gioacchino Rossini...) , mentre lei, valida sarta, confezionava alcuni abiti di scena per le cantanti liriche che lì si esibivano.
La coppia aveva trovato alloggio a via Sant'Anna di Palazzo (il Palazzo è quello Reale, ovviamente), a poche centinaia di metri dal San Carlo, e la mia prozia, anche dopo la morte del compagno e i matrimoni della figlia vera e di quella acquisita (mia madre più di una volta mi confidò di essere sempre stata affezionata più alla cugina "falsa" che a quella vera), aveva continuato a vivere in quella modesta ma centrale abitazione (alla sorella di mia nonna piaceva parecchio stare a Napoli: diceva che, se una persona cade per strada, trova subito qualcuno che l'aiuta, mentre a Pesaro ciò non sempre si verifica) .
Quando ero più o meno decenne (attorno al 1960), mia nonna ogni tanto chiedeva, a me e a mia madre: "A vlé m gì a truvè ma la Rusé na? " (Rosa era il nome della sorella, mentre mia nonna si chiamava Dora, anche se, forse per un errore dell'ufficiale dell'anagrafe al momento della nascita, sulla carta d'identità c'era scritto "Doria"; tra loro si chiamavano "Duré na" e "Rusé na") . Io ero molto contento di fare quella passeggiata, di viaggiare sui mezzi pubblici e anche di entrare, nei paraggi della zia Rosina, in un'ottima salumeria, che preparava dei panini al prosciutto straordinari (i prodotti alimentari migliori si trovavano - e si trovano ancora, credo - più facilmente nei centri delle grandi città che nei loro luoghi di produzione, le province) .
(Da pochissimi anni, dopo la "legge Merlin", era stata chiusa, a via Sant'Anna, una casa di tolleranza che in tempo di guerra fu motivo di riso e di rimprovero per la madre di mia madre: pioveva, e mia nonna, che con la figlia si era recata a Napoli per fare una visita alla sorella, aveva pensato - male! - di ripararsi momentaneamente nell'androne di un palazzo, senza avere dato importanza, a causa della sua semplicità e superficialità, al fatto che sul portone c'era una luce rossa; fu il marito poi, a casa, a spiegarle dove si era andata a cacciare, e che per quel motivo tutte le persone che passavano lì l'avevano guardata in modo strano...)
L'unica delle cose presenti nella casa della zia Rosina che ancora ricordo è una chitarra (o forse un mandolino?) appesa al muro, strumento che era appartenuto al suo compagno e che lei mi permetteva di toccare. Ma, più che la casa, mi attraeva la strada. Mi sembrava che volesse comunicarmi qualcosa, e quando, a diciotto anni di età, mi innamorai dell'Illuminismo, e conseguentemente della Rivoluzione francese e della Repubblica partenopea del 1799, non sapevo ancora (lo scoprirò molto più tardi, leggendo il bellissimo romanzo storico "Il resto di niente", di Enzo Striano) che a via Sant'Anna di Palazzo aveva abitato, nell'ultimo decennio del XVIII secolo, Eleonora Pimentel Fonseca, quella portoghese che fu una delle maggiori (se non la maggiore) e più sfortunate menti che riuscirono a realizzare, soltanto per sei mesi purtroppo, il sogno della repubblica illuministica a Napoli.
Recentemente ho avuto l'occasione, per aiutare un'amica straniera alle prese con problemi di traduzione in italiano, di ripassare un po' la chimica, e mi è venuta un'idea, certo bizzarra e poco scientifica, ma che mi seduce molto: nelle case in cui ha abitato una persona, nelle vie nelle quali ha passeggiato, volteggiano nell'aria alcune sue molecole, staccatesi dal corpo quando quella persona era in vita; chissà se una o due molecole di Eleonora si depositarono allora su me bambino, comunicandomi la tristezza per la tragica fine della Repubblica partenopea e magari anche la passione per la lingua e la letteratura portoghese, che all'Università deciderò poi di approfondire?
(Via Sant'Anna di Palazzo ha una strada adiacente molto più famosa: via Chiaia. La frequentai dieci, quindici anni dopo, perché lì viveva la sorella minore di mio padre, che aveva ottenuto il posto di portinaia in uno degli storici e prestigiosi palazzi di quella strada. Ma l'ambiente di via Chiaia mi piaceva di meno: troppa - finta? - é lite, troppa nobiltà decaduta, troppo spagnolismo - del resto, il nome della via è una deformazione della parola spagnola "playa", "spiaggia", perché, con la vicina Riviera di Chiaia, conduceva, e conduce, al mare -, troppi negozi con prezzi esagerati...)
La zia Rosina, diventata parecchio anziana e ormai non più autosufficiente, fu provvisoriamente ospitata, a via Roma (già via Toledo, ed ora di nuovo via Toledo: pare talvolta che Napoli non riesca mai a fare a meno della Spagna...) , dalla figlia (vera) che aveva sposato un dentista di Potenza di famiglia benestante e aveva avuto cinque figlie femmine (nessun maschio), per poi finire i suoi giorni in una casa di riposo. Conservo una sua fotografia, scattata quando venne il giorno di Natale del 1962 a trascorrere la festività a casa mia, in provincia. Io le sono accanto, e si vede abbastanza bene che rassomigliavo più a lei (per il fisico delicato, per certi tratti del viso e, cosa che non appare naturalmente nella foto, probabilmente anche per il carattere) che a sua sorella, mia nonna; a volte è sbagliato paragonare un bambino al padre, alla madre, o a un nonno o una nonna: l'ereditarietà è capricciosa, e può farci assomigliare maggiormente a qualche parente più lontano.