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Meta' della meta' di un sogno

Biografie e Diari

Imbruniva in quel piazzale desolato e Bianca si strinse nel suo giaccone per un improvviso brivido di freddo.

L’ inverno stava facendo il suo ingresso alla chetichella anche a Roma e lei sembrò quasi stupirsene.

L’ eterna primavera dov’ era? Tramontavano i soliti luoghi comuni e si affermavano inedite novità sul fatto che le stagioni fossero cambiate e che prevalesse una sorta di clima indefinibile, con un altalenare di temperature e un susseguirsi di giornate calde e di improvvisi freddi. Dove che fosse.

E lei veniva dal sud dove l’ inverno, contrariamente alle sue abitudini millenarie, si era già accasato con le prime gelate novembrine.

Il suo viaggio era stato lungo, prima in autobus, poi treno, ed ora infine l’ ultimo tragitto ancora in autobus, sperando che almeno non fosse freddo come il precedente.

Prese posto a metà, rincantucciandosi, nel caldo del suo giaccone, con in mano l’ ultimo libro del suo scrittore preferito, stile disadorno, minimalista.

L’ autista mise in moto e in meno di cinque minuti erano già fuori dal raccordo, sulla strada provinciale, con i novanta chilometri da percorrere.

Pagina centonovantasei. “ Aveva fatto un sogno strano, enigmatico…” e le si chiusero gli occhi, ma non se ne accorse.

Si ritrovò, non come Dante, nella selva oscura, ma nella sua auto, sulla via Colombo, con una sfilza di semafori, il traffico caotico di sempre. Anzi peggio, a cominciare dalla guida selvaggia di tanti pazzi al volante, che sfrecciavano ai due lati.

Stranamente non diede la stura alle sue solite esternazioni pesanti che avrebbe modulato in vari toni se fosse stata da sola, ma non lo era e con la coda dell’ occhio si accorse dell’ espressione assorta di Tina, la guardò per un attimo, mentre si immetteva nella carreggiata laterale, ma non riuscì a decifrare il suo stato d’ animo; vide solo un viso tremendamente smagrito, tanto quanto il suo corpo, debilitato dalla malattia.

Quella di Tina era stata una bellezza piuttosto insolita, così aggraziata da essere notata solo da chi avesse sensibilità per apprezzarla: il taglio particolare dei suoi occhi, l’ irrompere improvviso, ma sempre misurato, del suo sorriso, i suoi folti e ondulati capelli castani con sfumature ramate, i suoi gesti simili ad una suonatrice di arpa. Qualcosa che gli uomini raramente apprezzavano alla prima occhiata, perché serve attenzione per un’ avvenenza come quella, mentre invece sulla maggioranza dei maschi fa colpo la vistosità esibizionista, provocante, sguaiata. Tina, invece, sprigionava un fascino particolare, poco appariscente; poteva essere paragonata a certe figure femminili che appaiono negli affreschi quattrocenteschi di scuola umbra, e di quella sua grazia naturale conservava ancora l’ impronta evidente nel viso e nello sguardo.

“ Un appartamento? Non mi hai detto nulla durante tutto il viaggio…” Era quello il pensiero in cui era immersa.

“ E’ vero, sennò che sorpresa sarebbe?”

“ Allora mi hai mentito quando mi assicuravi che saresti andata a stare a casa di tua sorella.” Tina sembrava quasi dispiaciuta o preoccupata.

“ Mi stupisci, amica mia… Dopo quarant’ anni ancora non mi conosci? Lo sai che in compagnia di mia sorella non resisto oltre una mezza giornata! Figuriamoci abitare insieme a lei nella sua casa… No, per carità! Ho preso in affitto una mansardina.”

“ E dove?” Tina, la curiosa.

“ Ah, questo lo scoprirai domani e scommetto che resterai sbalordita.”

“ Aspetta a dirlo... anch’ io ti conosco bene e so quali quartieri di Roma ti piacciono. Vediamo se indovino… Aventino?” Bice scuoteva la testa.

“ Allora Testaccio o qui vicino… San Paolo?”

“ Acqua, acqua…” Tina che voleva indovinare a tutti i costi, mentre Bianca si tratteneva dal ridere e manteneva un’ espressione assolutamente ermetica.

“ Allora sei andata ad abitare in via della Pineta Sacchetti… Ma certo! La tua fissa con quel policlinico e gli ospedali…” Tina fece una smorfia di sofferto disgusto “ Spero solo che non si tratti di Anguillara, perché significherebbe che non vuoi proprio perdere il vizio del treno della tua vita…”

“ Arrenditi, perché con le tue intuizioni potresti arrivare oltre il polo nord…” concluse Bianca ridendo; la mansardina era in Via Fonte Buono, a cento metri dall’ appartamento di Tina, un piccolo bilocale di quarantacinque metri quadri: soggiorno con angolo cottura, un terrazzino che affacciava sulla strada principale, una camera da letto non troppo grande e un bagnetto con finestra. Però l’ affitto era un latrocinio.

Ecco il piazzale della Montagnola.

“ La mia casuccia romana!” esclamò Tina, ma con tono malinconico, mentre guardava in direzione di uno dei palazzoni di sette piani.

Parcheggiata l’ auto, Bianca scese, aprì il bagagliaio e ne estrasse la nuova ‘ speedy’, l’ ultimo modello di carrozzina con ruote cerchiate di arcobaleno, seggiolino in finta pelle di colore blu come i braccioli provvisti di pulsanti; era per Tina, perché potesse servirsene sia in casa che fuori, anche se lei detestava ogni tipo di sedia a rotelle.

“ Ora da dove esce questa?” chiese con un’ espressione di evidente disappunto “ Non mi dire che l’ hai affittata per me. Lo sai che non ne ho bisogno.”

Bianca sorrise imbarazzata senza sapere che fare, mentre Tina si aggrappava a lei, mostrando la volontà ferma di procedere sulle sue deboli gambe.

“ Dai, che sei brava” le rispose mentre la sorreggeva e ancora una volta avvertì tutta la leggerezza di quel corpo smagrito, esilissimo, addossato al suo e che tuttavia in quei minuti temeva di non riuscire a sostenere.

“ Le mie gambe di legno come quelle di Pinocchio” commentò con sarcasmo e leggermente stizzita, diventando rossa in viso, perché in quei momenti Tina era così, come se per la prima volta si accorgesse della sua infermità. “ Sono pesante, come un sacco di patate. Però penso che potrei farcela ad arrivare all’ ascensore senza questa inutile sedia…”

“ Pesante tu? Per favore, non ricominciare con la tua solita ossessione di essere grassa! Comunque, secondo me, sarebbe meglio affidarsi all’ aiuto della meccanica piuttosto che alle mie braccia di pastafrolla, ok?”

“ Non è vero. Le tue braccia sono leggere come ali di una farfalla e forti come rocce di granito.”

Tina era quella che, nelle situazioni più ordinarie e a volte complicate, trovava l’ espressione armoniosa, elegante, rielaborata da qualche sua lettura, o creata in virtù della sua eccezionale sensibilità.

Bianca la ringraziò stampandole un bacio sulla fronte, e così riuscì a farla sedere sulla carrozzina. Il portone era aperto ed entrarono nell’ androne per raggiungere l’ ascensore.

Tina sembrava contrariata: la carrozzina, la badante in arrivo, aveva quasi un’ espressione spaventata. “ Ma chi è questa Hinda di cui mi hai parlato? Io ho un po’ paura… Non è una che ruba?”

Era seria e ansiosa e Bianca si sforzò di rassicurarla.

“ Spero proprio di no. Nel quartiere la conoscono come una brava ragazza, il parroco ha dato ottime referenze; comunque se hai delle cose preziose in casa, provvederemo a metterle sottochiave, ok?”

“ Che profumo di pulito!” esclamò Tina non appena entrarono in casa. Hinda aveva lavorato a dovere, pensò Bianca soddisfatta; tutto era lucido e terso, mentre attraversavano il piccolo corridoio arredato con mobili degli anni Sessanta. “ Le chiavi vorrei che le tenessi tu, per favore” proseguì Tina, visibilmente contenta di ritrovare la sua casa in perfetto ordine, “ così entrerai in casa mia quando vorrai e senza bussare.”

Bianca, a sentirle dire questo, stava quasi per commuoversi, perché per lei quello era molto più che un segno di fiducia; intanto stavano per entrare in quella che un tempo era stata la stanza di Tina: c’ era il letto pronto con le lenzuola di bucato, la tv, uno specchio sopra una cassettiera, il tavolino, la libreria, e un armadio.

Tina volle posare il suo sguardo su ciascun oggetto, accarezzando con uno sguardo malinconico ogni angolo del suo piccolo regno, ricordo di un passato felice, dei giorni trascorsi in famiglia insieme ai suoi genitori; una felicità che per il presente si mischiava al dolore, fatto di solitudine e soprattutto di una grave malattia debilitante.

Bianca le lesse in viso tutto questo e poggiò la sua mano sulla spalla dell’ amica per rassicurarla.

Tina sembrava commossa. “ Grazie! Non mi aspettavo davvero di trovare la mia casa così… bella!” Lo disse sorridendo, mentre qualche lacrima brillava sulle sue guance scarne. “ Ora, se non ti dispiace, vorrei fare un giro per vedere anche le altre stanze.”

“ Agli ordini, principessa! Meglio controllare tutto…”

Bianca si sforzava di scherzare, tentando di rimuovere un po’ della commozione malinconica che quel ritorno stava creando in entrambe.

Attraversarono la cucina, il saloncino con il pianoforte e la pila degli spartiti, fino ad arrivare nella camera dei genitori: Tina soffermò lo sguardo sui mobili antichi: il comò con il ripiano sul quale c’ era la foto del padre, il quadro della Vergine col Bambino e il letto matrimoniale con la bella sopraccoperta di liserè a fiori beige e nocciola.

Qualcuno intanto stava suonando il campanello.

Era Hinda, capelli brizzolati raccolti in una lunga treccia, pelle ambrata, occhi scuri e un bel sorriso.

“ Piacere, signora Tina!” e le strinse la mano destra “ Puoi disporre di me per qualsiasi cosa…”

“ Grazie, Hinda per le tue perfette pulizie” rispose lei “ per stasera va benissimo così, semmai ci vediamo domani mattina…”

Hinda, che forse si aspettava un po’ più di conversazione, guardò perplessa Bianca, che con un’ occhiata ed un sorriso cercò di tranquillizzarla. “ Penso che la signora voglia riposare perché il viaggio è stato stancante, vero?”

“ Sì, è una buona idea, penso che andrò subito a letto” confermò Tina con un piccolo sorriso.

“ Nel tuo o preferisci quello di… tua madre?”

Per un attimo il suo viso si illuminò all’ idea di distendersi nel letto dei suoi genitori.

Bianca insieme a Hinda l’ aiutò a togliersi la maglietta e i pantaloni. Le sistemarono i cuscini e lei sorrise.

“ Tutto è a posto, grazie a voi che siete davvero bravissime!”

Sempre esagerata nei complimenti, pensò Bianca.

“ Ora Hinda preparerà qualcosa per la cena… Cosa ti va di mangiare?”

“ Non ho fame, mangia tu qualcosa… per me un tè con i biscotti andrà benissimo” Hinda si avviò verso la cucina e Tina chiese di tirare fuori dalla cristalliera il servizio di Limoges, decorato con tenui ghirigori celesti e blu, poi però nell’ attesa del tè si assopì.

Bianca si sedette accanto al letto con una sensazione di appagante serenità: ormai Tina era tornata nella casa in cui era cresciuta, e col tempo avrebbe ricominciato a vivere le cose che le piacevano, a dipingere e perché no, anche a suonare il pianoforte, ma un attimo dopo averlo pensato, ebbe coscienza delle sue fantasie, si chiese se stesse correndo troppo, trascurando volutamente la possibilità che la sua amica potesse essere nuovamente vittima di un attacco di quel male tremendo.

‘ Se per disgrazia dovesse risuccedere, lei troverà la forza e lotterà come una guerriera che si è allenata a lungo e sa di poter vincere.’ Lo pensò perché la conosceva da tanti anni e credeva fosse rimasta sempre come da giovane, tenace, una che non mollava. D’ improvviso tanti ricordi si assemblarono in immagini: una modesta famiglia originaria di un paese della Lucania, bello e assolato, poi a Roma, dove aveva frequentato le scuole e l’ università. La laurea a pieni voti, anche se non era mai stata una sgobbona; il concorso tostissimo al Ministero dei Beni Culturali, vinto grazie a mille sacrifici, svegliandosi anche la notte per studiare, mentre la madre le preparava caffè e panini con la marmellata. Passato quel lungo momento, li aveva odiati per sempre quei panini…

E poi il lavoro che l’ aveva poi delusa, perché lei non voleva diventare una grigia burocrate; per una come lei, impastata di senso artistico, sarebbe stato come toglierle l’ aria, impedirle di respirare. Perciò dopo qualche anno scelse di lasciare, di accollarsi altro studio, altre rinunce per affrontare un nuovo concorso, vincere la cattedra e insegnare in un liceo. Là finalmente si era sentita a suo agio, nel suo ‘ elemento’, lei con la ‘ stoffa’ della vera docente, quella che lascia il segno nella memoria e nel cuore degli studenti, quella del sorriso e della disciplina, combinazione difficilissima, di cui sono capaci solo rarissimi esemplari, ormai praticamente introvabili. Insegnava nella sua regione d’ origine, rimanendo ad abitare nel paese col quale aveva sempre mantenuto un forte legame: lì aveva avuto il suo primo innamorato, lì aveva creduto di trovare il marito giusto per lei… Nella foto del matrimonio sul comò della stanza, Tina appariva bella come un’ orchidea bianca, fasciata nel suo abito prezioso. Quel matrimonio sbagliato finì formalmente un anno dopo la sua malattia; lui non voleva una moglie ‘ malata’ da accudire e Tina decise di tornare a casa di sua madre, comportandosi senza isterismi, senza ricorrere a meschinità o ad inutili suppliche, con lo stile ed la dignità di esseri speciali come lei. Diciotto anni dopo il divorzio continuava ad indossare la fede, perché diceva di sentirsi ancora sposata.

Nel piccolo paese le strutture sanitarie riabilitative non erano adeguate al suo male, così il braccio sinistro divenne inerte ed anche la gamba, seppure con il tutore, era insensibile ai comandi.

Aveva dovuto lasciare l’ insegnamento, ma continuava a dare ripetizioni, perché, a parte le necessità economiche sopravvenute, insegnare la faceva sentire bene, pur nelle sue condizioni fisiche precarie. Così come le piaceva tornare di tanto in tanto nella sua casa a Roma, ma ultimamente avveniva sempre meno spesso, a causa dell’ avanzare dell’ età di sua madre, ormai sempre meno capace di sostenere un lungo viaggio.

Tina si mosse e aprì gli occhi. “ Sei qui?” le chiese in un sospiro “ Hai mangiato qualcosa?”

“ Mangerò più tardi. Se hai sonno, continua pure a dormire.” Bianca le rimboccò la coperta. “ Qui c’è la tua tazza di tè, ma ormai è freddo… Vado a prepararne un altro; Hinda è uscita a comprare dei biscotti, quelli che piacciono a te.”

Tania sorrise debolmente. “ Aspetta, ora resta qui accanto a me.”

“ Che c’è?” Bianca si avvicinò a lei prendendole la mano destra “ ti senti qualcosa di strano? Hai qualche disturbo? Vuoi che chiami il dottore?”

Tina la guardò negli occhi, intuendo la sua preoccupazione.

“ No, non è necessario… sono solo un po’ stanca.” Lo diceva per rassicurarla, poi iniziò a piangere silenziosamente e Bianca non sapeva come confortarla.

“ Scusami, Tina, ora capisco di aver sbagliato, mi sento in colpa per averti forzata a questo viaggio. Sono stata così stupida da supporre che tornare a Roma, nella tua casa di un tempo, ti avrebbe fatto bene…”

Lei sorrise. “ E’ che mi manca tanto mia madre e qui tutto me la ricorda…”

“ Vorrei tanto che tu tornassi ad essere serena e ad amare la vita come una volta…”

“ No, non ci sarà più una vita per me…” replicò tra i singhiozzi “ Ormai non ho più nessuno della mia famiglia e poi quale vita mi resta? Essere accudita da un’ estranea, una sconosciuta, a cui devo per forza affidarmi per le cose che non posso fare da me. Non riesco proprio ad accettarlo; ora che non c’è più mia madre, che ci sto a fare io su questa terra?”

Bianca si sentì come schiantata da quelle parole disperate, ma si fece forza per risponderle. “ Prima di te ho conosciuto l’ amarezza di quel genere di solitudine, perdendo troppo presto mia madre e insieme a lei tante mie belle speranze di vita… Mia cara, ora ti sembra di non farcela, ma credimi, sento che riuscirai a vincere questa guerra con la tristezza, anche in memoria di tua madre che lo desidererebbe tanto. Vorrei essere più presente e spero che tu me lo permetta, senza che questo significhi per te essere invasa anche da me nei tuoi spazi e nella tua autonomia. Volevo che fosse una sorpresa, ma te lo dirò ora: devi sapere che ho affittato un piccolo bilocale in via Fonte Buono, a cento metri da qui. Perché pensi che io abbia fatto questa scelta? Perché non voglio lasciarti sola con una badante e abitando da oggi a pochi passi da casa tua, potrei esserti di aiuto, di sostegno, di… compagnia. Ho pensato, ho progettato queste cose, ma è chiaro che ho guardato la situazione da una prospettiva che non è la tua. Sono stata superficiale nel credere che per te sarebbe stato facile stare qui, nel tuo mondo, tra le cose che ti appartengono e rivivertele… Invece l’ assenza di tua madre è più forte di qualsiasi cosa. Ed io ho sottovalutato una cosa così importante. Scusami, ti prego.”

D’ improvviso il viso smagrito e pallido di Tina sembrò illuminarsi.

“ Avresti fatto questo per me?” disse piano socchiudendo gli occhi e sorridendo tra le lacrime aggiunse: “ Abbracciami, per favore!”

Bianca ora ebbe come sussulto, aprì gli occhi, e mentre si ricordava di quelle parole e di tutto il resto, si ritrovò da sola sull’ autobus, con i vetri appannati e un autista grassoccio che le parlava.

“ Scusi, sa… siamo arrivati a destinazione!”

Fuori era buio e probabilmente anche molto freddo.

Doveva essersi addormentata poco dopo la partenza da Roma, per il beccheggio e il tepore dentro il pullman.

Prese il cellulare in tasca: erano le ventuno e trenta, proprio l’ orario in cui doveva arrivare. C’ era un sms da Donata, la cugina di Tina: “ Grazie ancora per le parole che hai detto in chiesa. Sono sicura che a Tina sarebbero piaciute. Un abbraccio e buon rientro a casa.”

Ripensò in un attimo a quanto era successo proprio un anno prima: l’ ictus di Tina, l’ ambulanza, l’ ospedale, la terapia intensiva e lei dietro la porta della rianimazione. Sperando, contro ogni realistica possibilità, mentre Tina non desiderava che andarsene dalla sua vita di sofferenze e solitudine.

Dopo quel risveglio brusco e i ricordi o il sogno, sentì che aveva bisogno di una pasticca di tranquillante.

Velocemente aprì la lampo dello zainetto e tirò fuori l’ astuccio portapillole, ne prese una e la mandò giù, bevendo un sorso d’ acqua dalla bottiglia che aveva con sé.

L’ autista grassoccio se ne accorse e le chiese preoccupato “ Si sente bene, signora? Ha bisogno di qualcosa?”

“ Tutto sotto controllo, grazie! Siamo al capolinea?”

La sua era una domanda stupida e non solo per il sorriso affermativo dell’ autista. Lo sapeva perfettamente di essere all’ ultima fermata, dopo più di trent’ anni che prendeva quel pullman.

“ Sì, signora, questa è piazza dei Caduti. Dove doveva scendere?”

“ Non importa… va bene anche qui. Vorrà dire che farò un tratto di strada a piedi.”

“ Se mi dice dove deve andare, può darsi ci sia un autobus all’ altro marciapiede… Lei non è di qui, vero?”

Gentile l’ autista grassoccio, o brava lei a confonderlo.

Dopo tutti quegli anni riusciva ancora a dare l’ impressione di essere una turista. “ Già, ha indovinato, non sono di qui.” “ Abita a Roma, signora?” le domandò l’ autista grassoccio, mentre lei raccoglieva le sue cose ed indossava il giaccone.

“ Veramente ancora non ho deciso se trasferirmi.”

“ Trasferirsi qui? Se lo dovesse decidere, non credo che si troverebbe male lontano dal caos della capitale.”

Bianca sorrise “ Trasferirmi a Roma, intendevo” e poi tacque, perché le sarebbe stato molto penoso spiegare che non avrebbe mai deciso per quella città. L’ autista grassoccio non si accorse di nulla. “ Roma la conosco poco, giusto il centro, piazza di Spagna, il Colosseo…” replicò, poi mentre Bianca stava per scendere il primo gradino, aggiunse “ Fa freddo. Le previsioni dicono che stanotte nevicherà. Sa una cosa? In questa città ci sono nato e qui spero di morire.”

“ Più che giusto” commentò lei sorridendo “ Allora auguri perché il suo sogno si realizzi.”

“ Beh, ma non subito, per favore…” ribatté l’ autista grassoccio scendendo dopo di lei “ Non mi voglia così male per piacere!”

“ No, assolutamente… Diciamo tra duecento anni? Che gliene pare?”

“ Duecento non credo proprio… ma sarebbe bello.”

Lei ripensò a Tina che da un anno non c’ era più, che aveva lasciato la sua vita nella terra d’ origine, anche se amava tanto Roma.

Da tempo Bianca sognava per lei e per sé quel ritorno, sperava di poterla riportare nella sua ‘ casuccia’, a cui Tina era tanto affezionata e alla quale pensava anche durante la sua terribile malattia.

“ Allora tra duecento anni che il suo sogno si avveri… Buona serata!” e fece per andarsene.

Una folata di gelida tramontana l’ avvolse. Ogni volta si stupiva di quel clima rigido, come se mai si fosse ambientata in quella città.

“ E il suo sogno, signora, qual è, se non sono troppo invadente?” riprese ancora l’ autista grassoccio accendendosi una sigaretta. Forse non aveva freddo, lui che, essendo originario di quella provincia, era abituato, o forse non aveva fretta di tornarsene a casa e voleva semplicemente chiacchierare con qualcuno.

Bianca si voltò e lo guardò per un attimo. “ Il mio sogno? Una mansardina a Roma, in via Fonte Buono.”

“ Parioli o giù di lì, immagino…”

“ No” replicò lei “ quartiere Montagnola, zona poco più che popolare. Un tempo lì c’ erano i pratoni…” aggiunse senza soffermarsi a spiegare cosa fossero, inseguendo i suoi ricordi.

“ Ed è così difficile da realizzare?” L’ autista grassoccio insisteva, ma lei non sapeva più cosa rispondere, avrebbe dovuto dire che erano esattamente trent’ anni che cercava di concretizzarlo senza riuscirci, e di sicuro l’ autista grassoccio non avrebbe capito le ragioni, troppo lunghe e complicate da spiegare da estranea ad estraneo.

Sembrava impacciata dal suo stesso silenzio, come se fosse la reazione di chi si è seccato di comunicare, e vuole andarsene per i fatti suoi, poi d’ improvviso, mentre l’ autista stava risalendo sull’ autobus, replicò “ Ecco, secondo me, i sogni sono così: quando li fai e ci sei dentro, vorresti non smettere, arrivare fino alla fine, quasi fossero cose vere, ed invece molto spesso si interrompono e ti lasciano solo una grande curiosità che non si potrà soddisfare. Penso che i nostri sogni siano la parte migliore della vita, anche se qualcuno tanto tempo fa ha scritto che la vita non è un sogno.”

L’ autista grassoccio si voltò e, continuando a fumare, le fece un sorriso. “ Lei, signora, è una cha ha studiato, si capisce… Io, ignorante come sono, posso solo dirle che chi ha scritto quella cosa lì ha proprio ragione. La vita non è un sogno.”

Ora davvero non c’ era più nulla da aggiungere, pensò Bianca e si accomodò lo zaino sulle spalle, poi gli fece un cenno di saluto con la mano.

“ Avresti fatto questo per me?” le aveva chiesto Tina in sogno; sì, certo, l’ avrebbe fatto, ma nella realtà non ci aveva neppure provato e le cose erano andate molto diversamente. In quel momento si sentì come svuotata, le sembrò di scivolare senza alcun senso su una lunga sequenza di carte di domino. Sollevò sulla testa il cappuccio del giaccone e attraversò il piazzale deserto; un’ altra folata gelida l’ avviluppò, mentre ormai alcuni fiocchi di neve s’ incontrarono scontrandosi con il suo viso, fin dentro i suoi occhi, che, forse non solo per il freddo, cominciarono a lacrimare. Continuò a camminare con lo sguardo appannato e improvvisamente si ricordò di una frase che tanti anni prima Tina era solita dire: “ Mai smettere di concedersi un’ altra possibilità!”

Ormai nevicava fitto fitto e lei pensò per un attimo che forse sarebbe valsa la pena di provare a vivere almeno la metà di quel suo sogno interrotto.

Tentare.


Bianca M Sarlo 19/04/2016 12:33 887

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
La riproduzione, anche parziale, senza l'autorizzazione dell'Autore è punita con le sanzioni previste dagli art. 171 e 171-ter della suddetta Legge.
I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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Nota dell'autore:
«Ci sono assenze che non saranno mai tali. Alla mia amica di una vita.»

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