“ Domani” era ormai la parola che ripeteva sempre più spesso a se stessa, una promessa, un proponimento, una certezza che puntualmente si sfaldava al sorgere del giorno, di ogni suo giorno.
Ricomporre in un’unica identità le sue cento identità, non tanto per mostrarsi sotto una luce univoca agli altri, bensì per raccogliere in una sola immagine le innumerevoli immagini di sé che le rimandavano, ciascuna diversa dall’ altra, lo specchio del bagno al mattino, le vetrine dinanzi a cui passava frettolosa durante il giorno, gli occhi del pubblico che ascoltava la sua musica, quelli di sua madre alla sera, quelli dei suoi figli, quelli di chi l’ aveva tanto amata in un tempo ormai lontanissimo, quelli di chi ancora l’ amava e avrebbe desiderato di essere stato il suo unico grande amore, gli occhi suoi stessi, che non sapevano più a quale volto davvero appartenessero, senza infingimenti.
Il problema era in realtà uno solo: scoprire finalmente a quale immagine di sé fosse maggiormente legata, quale di esse fosse in grado di tenerle stretto nel pugno il cuore, di raccogliere e mettere in ordine i suoi pensieri, di farle pronunciare le parole senza correzioni preventive, di liberarla, per eleggerla ad unica, veritiera, soddisfacente immagine di sé.
E tuttavia, malgrado ogni considerazione, si ritrovava a riconoscere di amarle un po’ tutte, quelle immagini, e di non avere la forza di staccarsi da nessuna di esse.
Ma quando suonava e le dita si muovevano sulla tastiera, ora lentamente, quasi accarezzandola, ora correndo e inseguendosi l’ una l’ altra, come in fuga sui tasti, per poi rallentare la corsa e adagiarsi piano sulle note in un lungo, dolcissimo amplesso, le pareva che nulla al mondo avrebbe potuto superare quella felicità, darle un appagamento più pieno.
Si amava, amava la pianista che viveva in lei e si lasciava abbracciare dalla musica dandosi ad essa come ci si può dare ad un amante soltanto nel primo... o nell’ ultimo incontro.