Ricordo bene quando sono morto.
Quando quel giovane dottore, dallo sguardo insicuro ma stranamente rassicurante, che mi aveva tenuto la mano, per tutti quei giorni che ero stato costretto fermo a letto, tra bip continui e malati che venivano e morti che andavano, quando quel giorno mi strinse più forte, perchè più forte potessi sentire il suo calore, mi disse quello che già sapevo.
Mi disse che mio figlio non c’ era più e che purtroppo io ero rimasto vivo.
Morivo in quell’ istante.
Non riuscivo a dire nulla, solo lacrime scendevano dal mio viso mentre il sangue in gola ardeva e il mio corpo tremava dal freddo che sapevo mi avrebbe circondato per sempre.
L’ infermiera, che mi sembrava distaccata assorta dai suoi problemi, ferma vicino la finestra, usci piangendo, non so dove andava ma avrei voluta seguirla, paingere con lei, mi sarebbe piaciuto piangere con qualcuno.
Ricordo bene quando il giovane dottore, qualche settimana dopo, con un sorriso appena accennato sul viso mi disse che preso sarei potuto tornare a casa.
“ Casa”, quel posto dove, dopo ogni viaggio, avventura o disavventura torni con piacere, che tieni nel cuore, che ti fa andare avanti, che ti dona le forze, perchè sai che al tuo ritorno ci sarà sempre qualcuno ad accoglierti, ad abbracciarti, ad amarti, quel posto dove non sarei mai più voluto andare.
Ecco cosa era adesso casa mia, come la “ vergine di ferro”, chiuso il sarcofago, nel buio delle mie paure, sarei stato traffitto da tutti i miei ricordi, per morire lentamente.
Per fortuna ero già morto dal qualche settimana.