Guardò le proprie mani. Perfettamente smaltate, le unghie rimandavano la tenue luce perlacea che le colpiva dall’ alto lampadario.
La forma lievemente arrotondata agli angoli, la lunghezza uniforme: erano sempre uguali, truccate.
Ma la mano, quella no. Era invecchiata, macchiata dal tempo. Come se la sua stessa pelle, barriera logora, volesse disancorarsi da quelle ossa che la trattenevano dal tornare polvere, e l’ avrebbe fatto. Forse non quel giorno, fosse andata bene nemmeno quell’ anno.
Sarebbe stata una lenta agonia, d’ attimi uguali che cambiavano l’ insieme. Rimase ferma, forse tanto tempo, non lo sapeva, né le importava. Guardò sempre quelle mani con il rimpianto di chi vide e visse una bellezza.
La caducità di quello stato che un tempo le era stato proprio le gravò addosso, come se ogni anno passato si fosse raggrumato e calcificato. Quel peso cui s’ aggiungevano sempre più attimi che senza accorgersene l’ allontanavano dai fari della gloria sembrò svanire nella comprensione, per poi sopraggiungere in tutta la sua forza.
Si sentì schiacciata, annichilita dai decenni: ogni giorno che la separava dall’ acme del proprio splendore aveva sbriciolato lentamente ciò che era. Alcuni vivono tenendo ben presente la duplice forma dell’ essere umano: mente e corpo. Nella natura apparentemente inversamente proporzionale delle due vedono motivo di vanto e soddisfazione. Ogni ruga che si faccia strada nel volto liscio diviene un’ esperienza acquisita. Il vecchio poeta gode d’ ogni macchia che testimonia l’ evoluzione in una poesia più vera e ricca.
Lei, no.
Aveva unite le componenti in un unico essere ch’ era corpo e mente in simbiosi e crescita. Era stato esattamente quando nella coscia vellutata e cremosa aveva sussurrato l’ amante parole d’ ardore che si erano riscritte nella carne. Aveva amato e odiato con una foga d’ esser completa sino allo spasimo, come se quel presente, passato, fosse stato l’ unica strada in cui si svolgesse l’ intera storia. In quegli attimi d’ estasi e acclamazioni era confluito ogni suo desiderio. Aveva goduto ebbra, consumandosi veloce.
Ora era vuota, appesantita. Grotta cava, fredda e umida che guardava dal lontano futuro il passato ingiallito ed inaccessibile nel suo fulgore: trattenendo come uno scrigno, delicatamente, con religiosa devozione una foto, che non più le apparteneva. Quell’ estraneità che le bruciava ghiacciata l’ animo si condensò in lacrime spente, sbiadite, lievemente salate, il cui sapore era stantio. Una di esse sfuggì alle pieghe della gota appassita depositandosi sul polpaccio tornito e candido della ragazza ammiccante.
S’ affrettò a pulire quella goccia ignobile col polpastrello, ma, si bloccò nell’ atto.
Un brivido scosse le membra della signora raggrinzita nella poltroncina. Nonostante il calore del camino vicino sentì un spasmo di gelo.
Percepì un disgusto acido e violento verso quella propaggine che tentava di mantener viva quella ragazza morta, su cui non godeva più di alcun diritto. Asciugò quelle lacrime improprie e sorreggendo l’ icona dell’ altra per i bordi, la gettò nel fuoco. Tornò quindi dolorosamente alla poltrona e guardò ciò che era giusto succedesse.
Non pianse più, né s’ appropriò di memorie barocche . Attese che il tempo concludesse l’ opera partecipando coerentemente al lento addio. Nel trascorrere fra decadenza e fine in cui qualcuno le ricordò i fasti, la risposta fu sempre uguale.
“ La ragazza è morta. Presto la raggiungerò ed allora sarò degna di ricordare.”
Senza accorgersi ch’ era la mente che anelava il ritorno al corpo, suo amore.