Talvolta è tutto talmente confuso nella mia vita.
Questa è una frase maledettamente ricorrente.
Non capivo, c’ erano talmente troppe cose che nel tentativo di spiegarsi m’ingarbugliavano ancor più che anche quelle ovvie perdevano consistenza. Erano giorni bui per la mia mente. Spensi l’ ennesima sigaretta in uno dei posacenere disseminati per casa. Ecco come una delle tante certezze diveniva fumosa, eterea.
Dal mozzicone si dipanava un solitario filo di fumo, con l’ indice schiacciai i rimasugli di tabacco che tenevano in vita l’ ultima brace prima del filtro annerito. Eppure non sentì nulla. Avrei dovuto avvertire almeno un lieve pizzicore al contatto, eppure nulla. Non sentivo. Mi chiesi per l’ ennesima volta se quella fosse la realtà o ancor peggio se io fossi reale. Era casa mia quella. Senza dubbio. Eppure non vedevo qualcuno da un tempo lunghissimo. Non sapevo dire quanto di preciso. Peraltro in tutto quel tempo non avevo neppure mangiato, che io ricordassi, ma avevo fumato parecchio, come testimoniavano i miei vestiti logori e bruciacchiati qua e là alle maniche, i vasetti e qualsiasi cosa potesse spegnere tutte le braci che ossessivamente avevo acceso. Ma il bicchiere, quello di fronte a me, poggiato sul tavolo ed affiancato da una bottiglia d’ acqua semivuota, quello, era una costante: sempre vuoto. Eppure io bevevo, e anzi avrei anche dovuto mangiare,forse. Il lavandino era vuoto. La cucina pulita. Forse in frigo avrei trovato qualcosa: era innaturale che non sapessi nulla in proposito, ma non mi turbava. Questo avrebbe dovuto allarmarmi seriamente. Attesi che si manifestasse una qualche reazione isterica, spropositata, plateale...ma non successe.
Vidi la mia mano, automatica, agganciare il pacco di sigarette e infilarmene una fra le labbra per poi accenderla con un bic scovato chissà dove o forse preso dal tavolo senza che me ne accorgessi. Io, in qualche modo, ero viva. Sapevo di esserlo. Io mi stavo muovendo. Inspiravo fumo e lo espiravo piano, vedevo le spirali svogliate disfarsi nell’ascesa al soffitto, la mia mano che s’avviava a picchiettare il filtro e la cenere che si staccava e s’ammucchiava ad altra. C’erano grosse incongruenze. Dovevo mangiare. Dovevo bere. Quello sarebbe stato d’ aiuto. Si sa che il corpo, come ogni buon lavoratore, esige la sua paga. Avrei finito di fumare e avrei mandato giù qualcosa, qualsiasi cosa. Il cesto della frutta era vuoto.
Sveglia. Sono sveglia. Me lo ripeto, forse per rendere il mio corpo consapevole, forse per convincermi. Sono nel letto. Ho tirato la coperta su di me. Ne sono avvolta. Guardo la sedia, la solita che affianca il matrimoniale. È vuota. Sotto però ci sono un paio di ciabatte. Il pavimento è sgombro, almeno da quello che posso vedere. Dovrei alzarmi, credo. Si, se sono sveglia. Infilo anche le ciabatte. Di pezza. Grigio scuro. Cammino e la stanza si oscura, la visuale si restringe. Il mio mondo si riduce ad un punto. Sento ancora sotto i palmi la superficie liscia del comò cui mi appoggio. Un formicolio freddo m’ invade.
Ritorno. Da dove non saprei. Forse dal nulla. Perché in fondo sono sempre stata qui. Mi sollevo mentre le giunture protestano al movimento nuovo. Chissà quanto tempo sono rimasta accasciata con la schiena al comò ed il corpo ripiegato scompostamente su se stesso, in una parodia di posizione fetale. Domanda inutile. Vado in cucina e riempio il bicchiere, lentamente, mentre il tremolio delle mani sparge gocce sul copritavolo chiazzando l’ azzurro acceso di blu. Bevo. Che bontà. Non m’ ero accorta d’ aver la bocca tanto asciutta. Ho una sete che cresce ad ogni sorso. L’ acqua sa di stantio. Ma va bene comunque, almeno per me. Sento il rivolo fresco scendere in gola reidratare i tessuti secchi e mucosi. Farsi strada, benevolo, fino allo stomaco. Che sensazione inconsueta e singolare. Mi siedo, estenuata da quell’ ikebana di quotidiano benessere. Come se la dolcezza del momento avesse saturato il mio essere esiguo. Dovrei comunque tentare di mandar giù qualcosa. Anche se non sento alcuna fame, dovrei. È giusto, è sano, ed io sono o dovrei essere o forse solo comportarmi come una persona sana. Dovrei svolgere quello che ci si aspetta da me. Anche se sono io e basta. Quella mia parte che si raffigura ed identifica nel mondo dovrebbe guidarmi nei giusti passi per brucare la foglia riprodurmi e morire. Come chiunque altro.
Il muro è giallino tenue. Molto tenue. C’è un quadro astratto che s’ affaccia sul tavolo. Un’ insieme di ghirigori dorati, di schizzi rosso- bruni e onde di nero. Una bruma perlacea affievolisce lo scontro di passioni e ne modera l’ impulsività centrale sciogliendola in luce ai bordi. È un bel quadro. Mi ci perdo.
Silenzio. Scandito dal battito simmetrico di lancette che falciano l’ oscurità e penetrano fino a me nell’ ovattato grigiore che mi circonda. Aspetto un cambiamento. Invano. Sono sola. L’ unica forza motrice che possa attuarlo sono io. Purtroppo, o forse per fortuna. Scanso terremoti od apocalissi varie, ma dubito che possa trattarsi di qualcosa di favorevole in quel caso. Riesco anche a fare dell’ umorismo stolto, sto decisamente migliorando. Sento la bocca che accenna timida ad un sorriso, ma poi il muscolo torna alla solita apatia e le labbra alla loro consueta simmetria. Si, giusto. Cibo. M’ alzo, con cautela estrema e apro lo sportello del pensile di fronte a me. Qualcosa che mi dia un minimo di energia. Biscotti alla mandorla e cacao. Solo quelli o le fette biscottate. Afferro la confezione e la apro di scatto mentre il mondo torna a farsi vago. Alla cieca afferro un biscotto e lo incastro fra i denti. Mastico e sudo freddo. Continuo mentre i granelli di mandorla mi si sbriciolano sulla maglia, mentre il cacao sollecita le mie papille gustative atrofizzate con la sua amarezza e ingoio. Non so se mi piaccia o meno. Non so neppure se ne ho voglia o meno dopo averlo mangiato. Probabilmente qualche tempo fa forse l’ avrei adorato, magari inzuppandolo in un te caldo o nel latte.
Non ricordavo, non sapevo e qualcosa mi spingeva a non soffermarmici, come se una qualche parte di me volesse, materna, proteggermi dal passato. D’ altronde, in quel momento, saperlo non avrebbe cambiato nulla o forse si, ma non certo in bene. Fissai la metà rimasta fra pollice e indice e ripetei il processo. Stessa cosa con un altro paio. Mi sentivo satolla. Accartocciai i bordi aperti del pacco e lo spinsi da parte. Bastava. Avevo la bocca impastata. Sorso d’ acqua.
Iniziavo a funzionare di nuovo. Ero consapevole dell’ inconsapevolezza del gesto. Io e quel corpo forse, stavamo iniziando a fare pace.