Lo chiamavano tutti così, a Pavarnia, perché, se volevi vederlo, dovevi andare al semaforo in via Tribunale, quello vicino all’edicola, all’angolo di Corso Leonardo Salviati.
Era un tipo smilzo, capelli corti e crespi, qua e là striati di grigio, un jeans scolorito (dal tempo, non dalle esigenze della moda), una camicia a quadroni blu infilata rigorosamente nei pantaloni che teneva su, a dispetto della sua magrezza, con una cintura di pelle nera, sdrucita come quella delle scarpe: un paio di mocassini con la suola ormai così sottile, che con la pianta del piede riusciva a sentire persino un ago di pino, là sul pavimento del marciapiede.
E quel marciapiede “il matto” l’aveva quasi consumato con il suo andirivieni negli ultimi dieci anni, da quando l’avevano dimesso dalla “clinica” perché dichiarato inoffensivo.
L’avevano ricoverato i suoi genitori, molti anni prima di lasciare questo mondo, nel 1969, probabilmente con un gran senso di sollievo, come si può facilmente immaginare.
Era stato, fino a pochi mesi prima di “ammalarsi”, un ragazzo come tutti gli altri, forse un po’ bizzarro, strampalato, ma niente di più. Poi, d’improvviso, le cose avevano preso una piega diversa: a volte, tornando a casa dalla scuola, cadeva in un tale stato di depressione da rifiutare persino il cibo che sua madre aveva amorosamente preparato per lui, e rimaneva digiuno fino al giorno successivo, senza bere neppure un bicchier d’acqua; altre volte era sovraeccitato, divorava tutto ciò che gli capitava a tiro ed era allegro senza un particolare motivo, rideva per un nonnulla, sgangheratamente e rumorosamente, ed era un riso che aveva del diabolico, faceva paura.
Come quel giorno, mentre si trovava con sua madre vicino al semaforo sotto casa, in attesa del verde. Cominciò a contare, tirando fuori ad una ad una le dita dal pugno chiuso, uno, due tre, quattro… e intanto tratteneva con l’altra mano sua madre, poveretta, che al verde voleva attraversare, stringendole il braccio in una morsa. Undici, dodici, tredici… e sempre quel ghigno sulle labbra e le dita fuori dal pugno, ad una ad una. Ventotto, ventinove, trenta: la comparsa del rosso e il suo gettarsi tra le macchine in corsa furono una cosa sola.
Lo ricoverarono con fratture multiple all’ospedale più vicino e da lì, una volta guarite le ossa, dopo cinque settimane, venne trasferito nel reparto psichiatrico.
Depressione bipolare - diagnosticarono i medici - con atteggiamenti maniacali, sadomasochisti, meglio tenerlo rinchiuso, finché non fosse guarito o almeno finché non fosse risultato inoffensivo.
C’erano voluti quasi quarant’anni perché il matto diventasse inoffensivo, ma poi finalmente ce l’aveva fatta e l’avevano dimesso.
A Pavarnia la sua casa era stata data in affitto dagli eredi sani al giornalaio all’angolo, il buon Tobia, che era stato suo compagno di classe e amico del cuore, quando ancora tutto filava liscio e di medici non avevano mai avuto bisogno, né l’uno né l’altro.
Perciò gliel’aveva lasciata volentieri una stanza, col bagno annesso, e lo faceva sedere a tavola con lui, sopportando le sue risate sgangherate o le lacrime improvvise, tra un primo e un secondo, aspettando, a volte, che decidesse di tornare a mangiare qualcosa dopo ventiquattr’ore di inspiegabile digiuno, un ramadan durante il quale non beveva neppure un bicchier d’acqua.
E alle otto del mattino, quando scendeva nel suo negozietto di giornalaio, anche il matto scendeva in strada con lui e iniziava quel tran tran sul marciapiede che l’aveva reso famoso come, appunto, “il matto del semaforo”.
Prima c’erano i preliminari: mentre Tobia sollevava la saracinesca, lui fingeva di girare una immaginaria manovella, come si faceva quando era ragazzo e ancora non c’erano i miracoli dell’elettronica. Poi, una volta assicuratosi che la vetrina fosse completamente aperta e l’amico dietro il banco, prendeva accuratamente le misure del tratto di marciapiede che separava l’ingresso del negozio dal semaforo, infisso sull’orlo della strada: sei passi precisi, a gambe divaricate, tirati con passo marziale. Un’occhiata al verde e poi, da lì, indietro verso la vetrina: sei passi precisi, a gambe divaricate, tirati a passo marziale.
Di tanto in tanto si appoggiava al muro dell’edificio, con la spalla destra, incrociando le gambe in atteggiamento di riposo: uno, due, tre, quattro….ventotto, ventinove, trenta. E di nuovo verso il semaforo e da lì verso la vetrina.
Per sgranchirsi un po’, tra un rosso e un verde, qualche saltello da fermo al centro del marciapiede, una rotazione delle braccia e un bel respiro a pieni polmoni: proprio come fanno di solito coloro che, al termine di una bella corsa salutare, sentono il bisogno di un po’ di stretching per sciogliere i muscoli contratti.