Non aveva paura del buio, Rosetta, quando veniva rinchiusa nella cantina dal fratello, più grande di cinque anni e geloso di lei quanto lei era orgogliosa di lui. Al buio sapeva che la lampadina si sarebbe accesa: doveva solo fissarla e volerlo con forza. Era troppo in alto l’ interruttore a croce, e duro da girare. In cucina doveva salire su una seggiola quando Giuseppe, capelli rossi e tutto lentiggini, glielo chiedeva con aria di sfida, attendendo solo un rifiuto per strattonarla. Con le piccole manine si tirò le trecce sugli occhi chiusi e inspirò profondamente, mentre si accucciava rassegnata, tra una botte odorosa di vino e una cassetta piena di cipolle. I quattro anni di Rosetta conoscevano già sia la gioia che l’ oscuro turbamento della cattiveria e non lo capiva ma aveva addosso qualcosa che faceva impazzire ogni logica del mondo fisico.
Nel paesino circondato dalle risaie e dalle zanzare numerose come i fili d’ erba, l’ occupazione della maggior parte delle donne per circa due mesi da aprile a giugno, era la monda del riso dalle erbacce. Anche la madre di Rosetta partecipava, arrotondando il lavoro di sarta: pochi abiti e molti rammendi. La donna al mattino preparava il pranzo per i figli che consisteva in grosse fette di pane spalmate con formaggio e cipolla, salame o lardo, poi metteva sulla stufa di ghisa la pentola piena d’ acqua e verdure e a volte un pezzo di carne. In sua assenza al pomeriggio dopo la scuola, Giuseppe avrebbe acceso il fuoco e controllato la cottura in attesa del suo ritorno.
Al mattino Rosetta restava in casa da sola e dava da mangiare alle galline. Nessun pericolo poteva turbare la vita di quel paesino, dove la chiave di casa veniva usata raramente e poi lasciata sotto un mattone vicino all’ ingresso.
Al mattino la madre si univa al gruppo delle mondine che passava davanti a casa e Rosetta salutata a gran voce dalle altre donne, sorrideva felice. Però la donna non aveva molto tempo da dedicare alla crescita dei figli, in quegli anni duri del dopo guerra, e i piccoli dispiaceri di Rosetta passavano in secondo piano, quelle rare volte in cui chiedeva protezione alla madre. Mamma Angela minimizzava i dispetti del fratello e la incitava a reagire da sola, responsabilizzandola più per mancanza di tempo che per pedagogia.
- Piantala di frignare Rosetta, se Giuseppe ti da una spinta, tu allungagli un calcio e poi urla forte, vedrai che la smette subito -
Nella piccola casetta di mattoni pieni costruita alla fine del paese, la vita si svolgeva tranquilla. L’ intonaco gonfio e in bilico, qua e là rosicchiato da una tenace edera, ogni tanto lasciava tracce della sua vecchiaia. Qualche decina di metri più avanti, alla prima curva della strada sterrata c’ era la grande croce di ferro che segnava il confine del paese e l’ inizio della campagna. Sotto di essa pregava inginocchiato da almeno cento anni, un piccolo angelo di pietra con nelle mani un mazzetto di fiori duri e bianchi. L’ angelo era la meta quotidiana di Rosetta per le sue allegre corse accompagnata dal suo gatto preferito, il tigrato, che la seguiva ovunque, perfino dentro al fossato, quando in primavera raccoglieva viole. Le mammole più scure e profumate venivano disposte attorno al mazzetto delle bianche più rare. La sua povera casa assumeva un aspetto diverso dalla primavera all’ autunno, addobbata con gusto da Rosetta, che raccoglieva viole e fragili tulipani gialli, fiordalisi e papaveri componendo mazzetti a cui univa qualche volta le fronde delle robinie o le foglie del pan di biscia.
Tra le poche gioie di Rosetta oltre alle corse, c’ era il gelato: nel paesino girava Gigi il gelataio con il carretto di legno bianco a punta attaccato davanti alla bicicletta. Rosetta scambiava un cono di gelato con due uova, depositandole vicino ai coperchi d’ ottone luccicante, poi leccava piano piano il dolce cercando di farlo durare a lungo, fino a quando il cono si piegava appiccicandosi alle mani, ormai imbevuto di sciolta dolcezza.
*
La campagna era verdissima quella primavera, e prima degli alberi che costeggiavano il torrente, gli spinosi cespugli di biancospino la sfumavano di bianco e spandevano nell’ aria un gradevole odore di miele.
Rosetta ora, era diventata una graziosa giovane di 27 anni alta e magra e aveva i capelli neri ancora raccolti, ma in una coda.
- Sarebbe accaduto ancora, – pensò- ne aveva riconosciuto l’ odore, sottile e acre come di cane bagnato.
Era in piedi vicino alla pozza marcia del torrente, senza pesci, né rane. Gli occhi azzurro cielo guardavano pensosi le colline sfumate, confini naturali di quella pianura amata.
- Strano -si disse- come una cosa immobile come la terra, avesse il medesimo comportamento di un umano quando è maltrattato, l’ odore così particolare della paura, quel difficile controllo di ogni sfintere…
Rosetta sapeva che tra qualche ora la terra avrebbe cominciato a tremare. Ne aveva avuto il presentimento fiutando quell’ odore, 17 anni prima, quando tutti i suoi famigliari – la madre e il fratello- erano morti sotto il crollo della sua povera casa.
Fine prima parte.