Se il titolo accattivante di un libro è una delle sue più potenti armi per farsi acquistare, una chiusa ben riuscita serve senz'altro a farlo meglio ricordare.
Non sempre lo scrittore pensa a dotare la sua narrazione di una chiusa particolarmente significativa, e ciò per vari motivi: la "Recherche" di Proust è così lunga e densa che in ogni pagina (e qualche volta ancor più nelle note in calce) può nascondere un gioiello, i romanzi di Kafka sono quasi lasciati in sospeso, tanto lui voleva che fossero bruciati, e Joyce non poteva fare per la chiusa dell'"Ulisse" una scelta che contravvenisse al suo modo estremamente sperimentale (e talvolta quasi incomprensibile) di narrare.
Ma abitualmente lo scrittore cerca di chiudere la sua opera in maniera significativa.
Quando leggiamo, alla fine della "Coscienza di Zeno" di Italo Svevo, "Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie" riceviamo un'immagine così potentemente catastrofica del nostro futuro che ci sentiamo immediatamente disposti a perdonare al grande triestino quei non pochi inciampi che egli trovava sulla strada della lingua italiana...
In un filone simile a quello di Svevo si inserisce lo scrittore francese contemporaneo Michel Houellebecq, che però crede nell'avvento di una nuova specie, asessuata e immortale. Ecco la chiusa di "Les particules é lé mentaires" ("Le particelle elementari") : "L'ambizione finale dell'opera è di salutare questa specie sfortunata e coraggiosa che ci ha creato, questa specie dolorante e vile, appena un po' diversa dalla scimmia, che nonostante tutto aveva in sé tante nobili aspirazioni, questa specie torturata, contraddittoria, individualistica e litigiosa, di un illimitato egoismo, capace talvolta di esplosioni di inaudita violenza, ma che non cessò mai di credere nella bellezza e nell'amore, questa specie che per la prima volta nella storia del mondo seppe considerare la possibilità della sua fine e che, qualche anno dopo, seppe mettere in pratica questa fine. Nel momento in cui i suoi ultimi rappresentanti stanno per estinguersi, crediamo che sia legittimo rendere all'umanità un ultimo omaggio, omaggio che, anch'esso, finirà con l'essere cancellato e col perdersi nelle sabbie mobili del tempo. E' però necessario che tale omaggio, almeno una volta, sia fatto. Questo libro è dedicato all'uomo. "
Restando nell'ambito della letteratura in lingua francese, mi ha colpito anche il modo in cui finisce il romanzo "Hygiè ne de l'assassin" ("Igiene dell'assassino") , dell'altrettanto contemporanea scrittrice belga Amé lie Nothomb, studiosa dell'Estremo Oriente, della cattiveria umana (spesso declinata al femminile) e delle dinamiche della società odierna, come il sadismo dei reality show. Nel romanzo citato, il premio Nobel per la letteratura Pré textat Tach, al quale restavano pochi mesi di vita, viene strangolato dalla giornalista che lo intervistava: "Le strade che portano a Dio sono impenetrabili. Ancor più impenetrabili sono quelle che portano al successo. Ci fu, in seguito a questo incidente, una vera ressa per procurarsi le opere di Pré textat Tach. Dieci anni dopo era un classico. "
Non si può non ricordare la chiusa del "Nome della rosa" di Umberto Eco, in cui il monaco Adso, diventato ormai anziano e più saggio, inquadra gli eventi da lui vissuti tanti anni prima in una prospettiva più ampia, più distaccata e alquanto nichilista, con echi filosofici non troppo distanti da quelli del "De rerum natura" di Lucrezio: "Mi inoltrerò presto in questo deserto amplissimo, perfettamente piano e incommensurabile, in cui il cuore veramente pio soccombe beato. Sprofonderò nella tenebra divina, in un silenzio muto e in una unione ineffabile, e in questo sprofondarsi andrà perduta ogni eguaglianza e ogni disuguaglianza, e in quell'abisso il mio spirito perderà se stesso, e non conoscerà né l'uguale né il disuguale, né altro: e saranno dimenticate tutte le differenze, sarò nel fondamento semplice, nel deserto silenzioso dove mai si vide diversità, nell'intimo dove nessuno si trova nel proprio luogo. Cadrò nella divinità silenziosa e disabitata dove non c'è opera né immagine. Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so perché, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. "
Sono tutt'altro che un dantista, ma sono rimasto sempre incantato dall'ultimo verso dell'"Inferno": "E quindi uscimmo a riveder le stelle" . Sarò senz'altro un pessimo ed eretico commentatore di Dante, ma quel verso, corroborato dall'"alta fantasia" alla quale si accenna al v. 142 dell'ultimo canto del "Paradiso", mi lascia immaginare che anche l'Alighieri avesse una visione essenzialmente terrena della vita, che quelle "stelle", che si possono vedere e ammirare soltanto da quaggiù, siano una prerogativa appartenente esclusivamente all'uomo vivo.
Forse, riportando una famosa frase di ascendenza saussuriana, si potrebbe dire che anche la letteratura "est un systè me où tout se tient", che, percorrendo strade ben diverse, Dante raggiunge Eco, e che tutti gli scrittori, alla fine, pervengono alla stessa meta, a ciò che è concesso sapere o immaginare alla nostra povera mente umana.