Fu quella l'unica volta, alla scuola elementare, in cui mi trovai in difficoltà con un problemino di matematica, che non riuscivo a risolvere, nonostante tutto il mio impegno: i miei genitori dovettero insistere alquanto per convincermi a farmi salire al secondo piano del palazzetto dove abitavo e a chiedere aiuto a una signorina che si era da poco laureata; mi risolse il problema, spiegandomelo anche pazientemente, ma quando il giorno dopo lo portai al maestro non ero soddisfatto: mi sembrava di avere barato, di avere sostituito una mia comprensibile debolezza con un falsificato adempimento del dovere.
Appartengo a una classe che ha visto sfilare, nel mondo della scuola, davanti ai propri occhi dei cambiamenti imprevisti e repentini, impensabili fino a pochi mesi prima. Come mi capiterà poi anche per l'esame di maturità del 1969 (il primo semplificato, al quale non si portavano più tutte le materie studiate), così nel 1961, anno della mia iscrizione alla prima media, solo in settembre si seppe che non bisognava più fare l'esame di ammissione, per cui passai l'estate a prepararlo inutilmente, a casa di un maestro elementare (che arrotondava così i suoi magri guadagni), studiando quasi l'intero "Cervino", una minienciclopedia stampata all'uopo. (Ricordo che, tra i vari alunni del maestro, c'era una bambina della mia età, però già sviluppata sessualmente, che provava un evidente piacere nel porre, al mio cospetto, in evidenza il suo seno già pronunciato. A me, forse anche perché allevato da piccolo, per problemi di mia madre, col latte artificiale, ciò dava parecchio fastidio, e da allora fui capace di innamorarmi soltanto di ragazze e donne coi seni piccoli.)
In prima media ero stato quasi uno studente modello ma, nonostante ciò, quando nell'estate mio padre fu avvicinato da un lontano parente appena laureatosi in Lettere (nella mia zona, negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, molte famiglie spingevano i propri figli a laurearsi, oltre che in Medicina, anche in Lettere, perché pensavano che queste lauree potessero apportare dei buoni guadagni...) , il mio genitore non esitò, soprattutto forse per non dispiacere al giovane "nipote" già "illustre", a iscrivermi (e questo si ripeterà anche l'estate successiva) ai suoi corsi casalinghi di ripetizione delle materie letterarie, che sarebbero dovuti servire ad affrontare meglio la seconda (e poi la terza) media. A distanza di tantissimi anni ricordo ancora bene non solo l'inutilità, ma anche la nocività di quelle lezioni, nonostante il compenso di ventimila lire, che per mio padre allora non erano una somma indifferente: seduti tutti attorno a un grandissimo tavolo, noi discenti, delle più varie età (dalla scuola elementare al ginnasio), dovevamo svolgere compiti, differenziati naturalmente ma poi corretti con criteri alquanto sbrigativi e diversi da quelli usati dai nostri professori pubblici; ero un ragazzino, ma tornato a casa ero già consapevole di dover dimenticare tutto quello che il parente avrebbe voluto inculcarmi, se volevo essere certo di andare ancora bene a scuola...
(Da questo episodio della mia vita preadolescenziale forse nasce il rifiuto, che persiste, rafforzandosi sempre più, tuttora, di ogni tipo di pubblicità, o meglio di ré clame, nel senso proprio di "richiamo", anche se, paradossalmente, uno dei lavori che più mi sarebbe piaciuto fare, e per il quale penso di essere abbastanza portato, è proprio quello di creatore di slogan... Non abbandonerei mai la società telefonica della quale mi servo da tantissimo tempo, e non voterei mai qualche personaggio politico particolarmente sorridente, telegenico e dispensatore di promesse irrealizzabili.)
Alla scuola superiore esclusi categoricamente la possibilità di andare al doposcuola: mi recavo a casa di compagni per risolvere problemi legati soprattutto alla matematica e alle scienze, e certi compagni venivano a casa mia per chiarire questioni linguistiche e letterarie.
Da insegnante ho sempre sconsigliato (anche se spesso sono stato poco ascoltato) i miei alunni di andare al doposcuola, e li ho invogliati a procedere (di molto o di poco è di secondaria importanza) con le loro forze.