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La notte passò lenta come quelle delle ultime due settimane, e Giovanni Secchi si alzò dal letto madido di sudore e più stanco della sera prima, infilò le sue ciabatte ma non trovò il coraggio di mettersi in piedi, per cui rimase seduto sul bordo del materasso a ripassare i minimi particolari di quel sogno, o forse meglio dire di quell’incubo, che non lo faceva riposare da qualche notte. Si asciugò il collo e la fronte con un fazzoletto e barcollando si diresse verso il catino dove versò dell’acqua per lavarsi. Fuori era ancora buio e solo verso est il cielo iniziava a rischiarire, annunciando l’arrivo di un nuovo e fresco giorno di primavera nella frazione di Collepasso. Giovanni viveva con i suoi anziani genitori in una vecchia casa immersa nel verde, dove aveva accettato di continuare l’attività che fu del padre e prima ancora del nonno, e cioè il contadino. Non gli dispiaceva molto aver assecondato gli inviti del padre, anche se la vita dura a cui aveva dovuto sottostare gli faceva fare delle riflessioni profonde da cui traeva nuove convinzioni per tirare avanti. La sua vita trascorreva al lavoro nei campi e solo il sabato sera e la domenica era dedicata allo svago; Giovanni si recava con il suo sidecar nel paese più vicino distante dodici chilometri dove incontrava i suoi amici e soprattutto Gilda, una mora conosciuta alla festa del Santo Patrono l’anno prima e che era diventata la sua fidanzata dopo circa un mese. Per il resto la vita non offriva molto altro, se non il duro lavoro nei campi preceduto dalle levatacce mattutine di qualsiasi stagione e condizione meteorologica. Ma negli ultimi tempi, dicevamo, le nottate di Giovanni erano accompagnate da strani sogni che a volte si trasformavano in incubi. Era iniziato tutto qualche giorno, o meglio, qualche notte prima, quando nel bel mezzo della notte Giovanni sentì una voce, anzi un sussurro, che dolcemente gli preannunciava che di li a poco la sua vita sarebbe cambiata, in meglio si intende, se solo avesse creduto in quelle parole e avesse messo in pratica i consigli ricevuti. La prima volta il sogno non lasciò strascichi nella giornata successiva di Giovanni e anzi, lo stesso imputò quella strana esperienza all’abbondante pasto della sera prima. Ma quando dopo due giorni il sogno si ripeté, Giovanni iniziò a darci più peso, e valutò più attentamente la cosa. Poteva mai un sogno ripetersi più volte allo stesso modo? Infatti la voce che ogni notte Giovanni ascoltava, invitava, senza sosta, il nostro protagonista ad alzarsi ed andare a cercare fortuna altrove. I tempi erano duri, ed il lavoro di Giovanni, per quanto massacrante, serviva a tirare avanti la baracca in modo dignitoso, garantendo il minimo indispensabile per sé ed i suoi anziani genitori; di tanto in tanto si permetteva un po’ di svago insieme alla sua Gilda, ma rimanendo nella semplicità che una vita austera può offrire. Per cui Giovanni spesso si rattristava quando pensava al futuro che avrebbe offerto alla sua amata, ma poi con un sorriso scacciava i cattivi pensieri e riprendeva il suo lavoro, sicuro che con Gilda al suo fianco, le cose sarebbero andate migliorando. Pensò quindi che il sogno ricorrente, potesse essere un riflesso dell’inconscio così esasperato dai suoi pensieri. Ma le giustificazioni cercate da Giovanni, non servirono a cambiare le sue notti che anzi, diventarono sempre meno riposanti e più arricchite da quella voce che ormai gli incuteva timore. Vi domanderete ora cosa mai dicesse questa voce. Presto detto: “ Giovanni, alzati e diventerai ricco, avrai tante monete d’oro da poterti assicurare una vita da vero signore, diventerai padrone di molte terre e non dovrai più romperti la schiena nei campi. Pensa alla tua Gilda, alzati!”. Ma come faceva quella voce a sapere dell’esistenza di Gilda? Giovanni se lo chiese svariate volte ma senza trovare una risposta plausibile. In più, anche a voler dar retta alla voce, dove doveva andare il nostro Giovanni quando si sarebbe alzato dal letto? La risposta arrivò la notte successiva, allorquando, Giovanni ricevette delle indicazioni precise dalla voce che dopo averlo tormentato con i soliti discorsi, in modo schietto gli sussurrò: “Parti Giovanni, devi partire, devi raggiungere la città di Astra, prendi il primo treno e raggiungi Astra. Quando sarai in quella grande città, recati subito sul ponte dalle cinque arcate e lì attendi la tua fortuna”. Immaginate come doveva sentirsi Giovanni al risveglio! Dopo essersi lavato e vestito, scese in cucina e fece colazione con la solita tazza di latte caldo e pane raffermo, ma non era presente a se stesso; la notte gli aveva lasciato profondi segni e l’unico pensiero che lo assillava era quella splendida ed inquietante novità. L’anziana madre lo trovò con i gomiti appoggiati sul tavolo e le mani che sorreggevano la testa con le mascelle serrate e, un po’ preoccupata nel vedere il figlio come non mai, gli si sedette di fronte chiedendogli cosa mai gli fosse accaduto. Giovanni, rinsavendo, si accorse solo allora della presenza della madre seduta di fronte e rassicurandola le disse che era solo un po’ preoccupato per il duro lavoro che lo avrebbe atteso nei campi, ma che per il resto andava tutto bene. Il pensiero di raccontarle tutto non lo sfiorò nemmeno per un attimo, e continuò a rasserenare l’anziana madre tenendole la mano e sorridendole in modo convincente e sincero. Passarono altri due giorni ed il nostro amico, accompagnato costantemente dai pensieri di giorno e dai sogni di notte, decise di assecondare quello strano invito, recandosi innanzitutto nella stazione del vicino paese dove chiese informazioni sul viaggio per Astra. La città di Astra distava da Collepasso mezza giornata di viaggio; era una città splendida, la più grande di tutte, fondata nei primi anni del medioevo e ricca di vestigia che ne riflettevano i fasti di un tempo remoto, di cui si poteva ancora apprezzarne il fascino percorrendone le strade. Giovanni ne aveva sentito parlare solo raramente, e ricordava di averne studiato le origini e letto notizie più recenti sui libri di scuola. I rari giornali che riusciva a leggere il sabato nei bar, ne illustravano la cronaca con dovizia di particolari ed immagini, ed essendo la sede del Governo e la capitale economica del Paese, era consuetudine trovare ampi spazi a lei dedicati. Di tanto in tanto, in paese, tornava qualche emigrante che vi aveva lavorato, e da loro si riusciva a cogliere notizie legate anche a racconti talvolta arricchiti da un briciolo di fantasia. La domenica mattina Giovanni tornò in paese dove rimase con la sua Gilda, alla quale confidò di aver ricevuto un invito a presentarsi presso un notaio di Astra e che sarebbe partito la settimana successiva, ignorando però il motivo di tale invito. Stessa cosa disse ai genitori, mostrando loro una missiva consegnatagli dal postino Beppe il giorno prima. In realtà si trattava di una lettera scritta dallo stesso Giovanni che serviva a giustificare la sua partenza quasi improvvisa. Provò un profondo rimorso allorquando i genitori si mostrarono preoccupati per la storia del notaio, ma Giovanni non aveva altra scelta, poiché la voce del sogno gli ricordava sempre di non svelare a nessuno quel segreto pesante come un macigno. - A proposito di macigno: dimenticavo di dirvi che il luogo dove abitava Giovanni, era anche noto nella zona come “sasso matto”, a causa della presenza di un enorme masso rotolato chissà quanto tempo prima dalla vicina collina e che si era fermato nel punto in cui ora vi erano le sue terre. Il macigno distava all’incirca 50 metri dalla casa della famiglia Secchi, e ne era sovrastata in altezza. – Giunse quindi il mercoledì, giorno scelto da Giovanni per la partenza. Le notti erano state accompagnate al solito dalla voce sempre più insistente ed a nulla erano serviti i sussurri di risposta emanati dal nostro amico atti a zittirla; “parto, parto, partirò per Astra, ho deciso”, ma nulla fermava quel tormento. L’indomani Giovanni si alzò di buon’ora (come sempre del resto!) e si allontanò dal suo letto velocemente pensando che in qualsiasi caso, quella era l’ultima volta che lui ed il letto avrebbero avuto a che fare con quella storia. Ad aspettarlo in cucina c’erano Antonio e Maria, e la solita colazione fumante. Il padre si offrì di accompagnarlo alla stazione con il calesse, ma Giovanni gli rispose che avrebbe preso il suo sidecar con il quale avrebbe fatto rientro a casa dopo il viaggio di ritorno. Sarebbe andato alla stazione anche a piedi, ma per nessun motivo avrebbe permesso all’anziano padre di far soffrire oltremodo le sue stanche ossa lungo la strada sconnessa che conduceva al paese. Salutò e strinse i suoi cari promettendo loro che avrebbe fatto ritorno a casa nel giro di due o tre giorni, e a bordo della tre ruote si avviò verso lo stradone, non prima di aver sistemato nella carrozzella la sua piccola valigia di cuoio. L’aria frizzante del mattino contribuì a risvegliare del tutto il nostro protagonista, che suo malgrado, si stava avviando non senza dubbi e rimorsi, verso l’ignoto. Giunse poco dopo alla stazione del paese, dove parcheggiò il sidecar; al suo amico Gerardo, bigliettaio della stazione, disse che l’avrebbe lasciato lì per un paio di giorni, giusto il tempo di andare ad Astra e ritornare. L’uomo, come si può immaginare, si mostrò incuriosito, ma prima che formulasse l’aspettata domanda, Giovanni gli disse che si recava ad Astra a trovare una vecchia parente del padre che non stava molto bene in salute. Gerardo stacco il biglietto e salutò Giovanni, dicendogli che si sarebbe curato personalmente della motocarrozzetta (termine che non era molto gradito a Giovanni, il quale aveva imposto il nome di Carlotta al suo mezzo; ma era una cosa che sapeva solo lui!) . Tuttavia non gli tolse lo sguardo di dosso sino a quando si udì in lontananza lo sferragliamento del treno che giungeva sull’unico binario della piccola stazione. Solo allora Gerardo vestì i panni di capostazione e iniziò a fischiare per far allontanare le persone presenti sul marciapiede. Poco dopo, tutti furono sulle carrozze , e ad un ormai collaudatissimo ed elegante cenno di Gerardo, il treno riprese a muoversi. Giovanni si accomodò in uno scompartimento semivuoto, in compagnia di una bimba e dei suoi genitori, gente ben vestita e dai modi garbati che nel suo immaginario Giovanni classificò come appartenenti al ceto medio alto. Si sedette al posto numero 11, quello accanto al finestrino e guardando i suoi luoghi allontanarsi, ricordò l’ultima volta che salì sul treno: fu quando ricevette la chiamata alle armi proprio in occasione dello scoppio della guerra. Da allora erano passati solo pochi anni e dopo quella triste esperienza Giovanni non immaginava minimamente che si sarebbe ritrovato nuovamente su un treno a causa di un motivo così bislacco. Mentre i ricordi si ammassavano nella mente insieme ai pensieri più disparati, Giovanni fu vinto dal dondolio del treno e cadde in un profondo quanto riposante sonno, durante il quale l’ormai invincibile voce tornò prepotente a farsi sentire: “tra poco, ancora poco e diventerai ricco”. Si risvegliò e guardò fuori dal finestrino proprio nel momento in cui iniziavano dei centri abitati sparsi tra la vegetazione, enormi archi di acquedotti sembravano rincorrere il treno, e strade sempre più larghe percorse da lussuose automobili preannunciavano l’arrivo ad Astra. Alle 15.00 esatte il treno, sbuffando fumo nero nell’aria come un vulcano impazzito, entro nella grande stazione; Giovanni rimase impressionato nel vedere quello spettacolo di treni allineati, lussuosi vagoni provenienti da posti lontani, signore eleganti immerse in quel via vai che gli procurava delle vertigini. Scese dal treno dopo aver salutato i suoi compagni di viaggio e si avviò verso l’uscita della stazione. Ad attenderlo fuori c’era un mondo completamente differente dal suo, fatto di frastuoni di clacson, urla di venditori di souvenir e tram che si tuffavano nel traffico. Giovanni era ancora in balia dei suoi pensieri, ma ben presto ricordò il motivo che lo aveva spinto a trovarsi lì. Uscì dalla stazione e, declinando cortesemente l’invito di quanti gli offrivano statuette, cianfrusaglie e viaggi panoramici a bordo di carrozze, Giovanni corse incontro ad un frate in attesa di un tram, al quale chiese dove si trovasse il ponte dalle cinque arcate. Il religioso scosse la testa e disse che se pur residente ad Astra da vari anni, non sapeva dell’esistenza di questo ponte. Vi erano molti ponti in città poiché era attraversata da un grande fiume, ma era certo che un ponte con quel nome non lo aveva mai sentito nominare. A Giovanni sembrò crollare il mondo addosso e mentre gli sembrò che una mano del frate gli stesse stringendo lo stomaco, una zingara che era poco distante da loro e che aveva ascoltato la breve conversazione, disse:”forse tu cerchi il ponte San Giulio, l’unico della città ad avere cinque arcate. Lo troverai a tre isolati da qui”. Così dicendo la zingara indicò con l’indice teso la direzione da seguire e poco dopo ritirò il braccio porgendo a Giovanni il palmo della mano aperto. Quest’ultimo guardò prima il frate, che aveva iniziato a scusarsi per l’amnesia e poi, con un sorriso che lentamente stava per arrivare alle orecchie, depose una moneta nella mano della zingara che ringraziò e salutò Giovanni augurandogli buona fortuna. Un caso? Mah! In due salti Giovanni attraversò la larga piazza della stazione e, sgattaiolando nel traffico della città, si diresse verso la sua agognata meta. Arrivò in prossimità del ponte dopo dieci minuti di cammino e la prima cosa che fece fu quella di contare le arcate. Erano proprio cinque ed il ponte era proprio grande. Si avvicinò lentamente all’inizio del parapetto in marmo bianco e guardando giù si accorse di quanto fosse alto. Volle ulteriormente accertarsi che il ponte fosse quello indicato dal sogno e siccome notò poco più in là un vigile intento a dirigere il traffico, gli si avvicinò e gli chiese se quel ponte avesse un nome. Il vigile lo squadrò dalla testa ai piedi e leggermente infastidito per l’attraversamento azzardato posto in essere da Giovanni, disse che quello era il ponte San Giulio, conosciuto anche con il nome di ponte delle cinque arcate. L’emozione fu tanta, ed il nostro Giovanni tornò velocemente sul marciapiede, seguito dallo sguardo infastidito del vigile. Non sapendo ora cosa fare esattamente, ricordò le parole ascoltate in sogno che però non gli davano ancora la possibilità di capire cosa sarebbe successo su quel ponte di così importante, al punto da cambiare la sua esistenza. Giovanni non sapeva cosa pensare e mentre si guardava intorno, iniziò a percorrere il ponte in tutta la sua lunghezza. Ogni tanto dava un’occhiata oltre il parapetto e apprezzava, provando un brivido inevitabile, quanto fosse alto il ponte, e guardava ammirato il fiume scorrere lento ma inesorabile. Per un attimo, si chiese anche se una persona che avesse voluto tentare un tuffo, sarebbe riemersa senza conseguenze dopo aver impattato la superficie da quell’altezza. Il tempo passava, Giovanni percorse il ponte da una parte all’altra per un po’ di volte e ad un certo punto si accorse di trovarsi lì da quasi due ore. Lo sconforto pian piano si stava impossessando dell’anima di Giovanni e nella sua mente un pensiero di resa si concretizzava sempre più. “Ma come ho fatto a dare retta ad una voce, ad un sogno, qualcuno si è preso gioco di me ed ancora più stupido sono stato io a venire sin qui, abbandonando il mio lavoro e la mia semplice ma reale vita!” ripeteva fra se e se Giovanni che ormai, arresosi, stava percorrendo per l’ultima volta il ponte. Così aveva deciso. Non fece in tempo a realizzare a metter in atto la propria decisione, che senti poggiarsi una mano grande e pesante sulla spalla destra, che con decisione lo costrinse a voltarsi di soprassalto. In una frazione di secondo Giovanni terminò la piroetta, per ritrovarsi davanti al vigile a cui due ore prima aveva chiesto l’informazione. Giusto il tempo di rendersi conto della presenza dell’agente e Giovanni fu colpito da un’altra stretta allo stomaco. Perché mai quel vigile ce l’aveva con lui? Cosa mai aveva potuto fare di così grave per essere trattato in quel modo. Le risposte non tardarono ad arrivare nel momento in cui il vigile parve aprire bocca. “Sono due ore che ti vedo gironzolare senza una meta precisa e secondo me sei uno straniero come tanti che tra poco si dedicherà all’accattonaggio, infastidendo gli onesti turisti che attraversano il ponte. Se sei arrivato chissà da dove per cercare fortuna ad Astra, non è in questo modo che la troverai. Mostrami un tuo documento!”. Giovanni si chiese perché mai il vigile lo avesse identificato come uno in cerca di fortuna, e dopo aver sfilato dalla tasca interna della giacca il suo portadocumenti, consegnò, con le mani tremanti, la carta d’identità al vigile. Dopo averne verificato i dati, chiese con tono più pacato:” allora, mi spieghi cosa ci fai su questo ponte?”. Giovanni prese coraggio e decise, a scanso di equivoci, di raccontargli la verità: “ signor vigile, mi dispiace averle fatto credere che io possa essere un poco di buono, ma così, le assicuro non è. Sono un semplice contadino che vive a non so quanti chilometri da questa splendida città, e mi pento amaramente di esserci arrivato per un motivo così stupido che ho vergogna a raccontarle, ma lo farò”. Fu cosi che Giovanni, raccontò di essere arrivato su quel ponte di Astra in seguito ad un sogno, nel quale gli veniva detto che in quel posto avrebbe trovato la sua fortuna, omettendo particolari più compromettenti. Quando Giovanni ebbe terminato il racconto, il vigile sbottò in una sonora risata, che parve riecheggiare per tutta la città di Astra. Giovanni ebbe vergogna e pensò che in quel momento avrebbe preferito trovarsi in qualsiasi altra parte del mondo. Ad ogni buon conto il segreto era svelato ed in un certo senso sentiva lo spirito leggermente sollevato. Il vigile prese sottobraccio Giovanni e girandosi prese a camminare verso l’altra estremità del ponte, dicendogli queste parole:” mio caro signor Giovanni, torna alla tua terra che sicuramente ha bisogno di te e delle tue mani. Non ti sembra di aver perso già troppo tempo dietro a questo stupido sogno? Anche a me tempo fa successe una cosa simile; per un po’ di notti una voce mi sussurrava di recarmi in un posto sconosciuto dove sicuramente avrei trovato fortuna. Figurati se io potevo mai dar retta a quella stupida voce! Dopo qualche notte me ne sono liberato e non l’ho più sentita”. Giovanni parve rincuorato, incredulo e smarrito nello stesso tempo e fattosi coraggio chiese: “ però, che coincidenza, e cosa diceva quella voce?”. Ed il vigile: “ mah, non ricordo più molto bene, ma qualcuno mi invitava a partire per un posto di cui non ricordo il nome … ah ecco, Sassomatto dove, scavando ad un passo da un macigno, avrei trovato un tesoro d’inestimabile valore. Mi apparve anche una casa poco distante, ma la storia non ebbe un seguito perché i sogni ad un certo punto finirono ed io non ci pensai più. Immagina se fossi partito per Sassomatto, non so nemmeno se esiste per davvero!”. Seguì un’altra fragorosa risata del vigile, mentre il nostro amico Giovanni dovette cercare un appiglio per non svenire. Si appoggiò al parapetto del ponte accusando vertigini e malesseri vari, ed anche il vigile dovette accorgersene, poiché lo sorresse prima che potesse scivolare direttamente nel fiume! Tornò alla realtà dopo pochi secondi e la coltre di nebbia in cui gli era sembrato cadere, si diradò in un attimo oltre la quale rivide l’espressione preoccupata del vigile che chiese a Giovanni cosa mai gli fosse accaduto. Giovanni disse di avere accusato un leggero mancamento, forse dovuto alla fatica del viaggio ed alla fame che iniziava a farsi sentire. Tutto gli girava intorno e quando iniziò a ripensare al sogno raccontatogli dal vigile, fu ancora peggio. Aveva detto proprio “Sassomatto” ed aveva parlato di un tesoro ad un passo dal macigno affiancato alla sua casa. Non ebbe dubbi nel pensare che non poteva trattarsi di una strana coincidenza; il sogno, anzi i due sogni erano veri e parlavano di fortuna e tesori. Bisognava subito verificare la cosa. Ripresosi dalla forte emozione, e dopo aver chiesto se potesse andare via, Giovanni salutò cordialmente il vigile, il quale lo invitò a riempire lo stomaco quanto prima, e con un sogghigno gli suggerì di non dare più retta a certi sogni. Giovanni annuì e con le gambe tremolanti percorse a ritroso la strada che lo aveva portato al ponte. Non stava più nella pelle dalla forte emozione e, chissà perché, era sicuro che sotto il grande macigno avrebbe trovato veramente qualcosa di valore. A grandi passi ritornò verso la stazione da dove, sperava, avrebbe preso il primo treno che lo avrebbe riportato a casa. Il tabellone indicava la partenza di un diretto alle 23,49 che effettuava la fermata a Collepasso, e considerando che erano appena le 19,30, Giovanni fu colto da una smania profonda che gli procurò quasi un attacco di panico. Tutto era dovuto alla dannata fretta di far rientro a casa, ma trovò la forza per scrollarsi di dosso quella sgradevole sensazione imponendosi calma e riflessione, stirandosi la giacca e allargandosi con l’indice della mano destra il collo della camicia. Si diresse così verso la biglietteria, dove fece il biglietto di ritorno. Girandoselo tra le mani, quel biglietto gli dava la sensazione che fosse un lasciapassare per una nuova vita! Così rimase pensieroso per quasi quattro ore seduto su di una panchina all’interno della stazione, sino a quando, scortato dai fischi del capostazione, arrivò il tanto atteso treno. In un salto Giovanni vi salì e si diresse nel corridoio alla ricerca di un posto, che trovò quasi subito. Trovò posto nuovamente vicino il finestrino, e solo quando il treno si mosse, si rese conto di essere il solo viaggiatore presente nello scompartimento. Pensò che la cosa lo avrebbe aiutato a riposare meglio, in quella notte che si preannunciava come una delle più lunghe della sua vita. E così fu; Giovanni dopo circa un’ora dalla partenza, mentre ripassava tra se e se le vicissitudini delle ultime ventiquattro ore, crollò in un sonno profondo da cui si risvegliò con le prime luci dell’alba. Dal finestrino su cui era poggiata la sua fronte, le campagne e gli alberi iniziavano ad assumere le vere sembianze del giorno, e le nebbie mattutine lasciavano il suolo per dissolversi magicamente. Si raddrizzò sul sedile mentre alla porta comparve il controllore che chiese il biglietto. Nel porgerglielo, Giovanni chiese quanto tempo era necessario per arrivare alla stazione di Collepasso. L’uomo forò il biglietto con la sua pinza e disse che sarebbero arrivati a Collepasso tra circa tre ore. Il tempo sembrava non passare mai, e ci si misero anche i lavori ad un tratto di ferrovia a rallentare il viaggio. Alle 11,30 Il treno fermò finalmente a Collepasso. Giovanni, che era già pronto davanti alla porta di discesa, non aspettò nemmeno che il treno si fosse fermato, e dopo aver aperto la porta, con un salto si proiettò sul marciapiedi della stazione. Tra le cose negative che avrebbero potuto rovinare il suo rientro a casa, vi era anche quella dovuta alla possibilità che il treno si fermasse per pochissimo tempo e, chissà per quale motivo controverso, Giovanni non avrebbe fatto in tempo a scendere! Ma ora che si ritrovava sul suolo natio, prese a correre verso l’uscita, dove ritrovò la sua “Carlotta”. L’amico Gerardo fece appena in tempo a salutarlo, anche se era nelle sue intenzioni trattenerlo per saperne di più su quello strano viaggio, ma Giovanni lo salutò frettolosamente e a tutto gas si avviò verso il paese. Si fermò sotto casa di Gilda la quale, assordata dal suono gracchiante del cicalino di “Carlotta”, si affacciò incredula dalla finestra. Vide il suo Giovanni mezzo impolverato che gli faceva cenno di scendere. La donna, in preda a chissà quali sentimenti, discese le scale e si presentò al suo Giovanni che le disse di salire sulla moto per dirigersi verso casa sua. Gilda ubbidì e si sistemò nella carrozzella al suo fianco. La donna di tanto in tanto sbirciava il suo Giovanni intento nella guida, da cui riceveva veloci occhiate rassicuranti. Gilda avrebbe voluto chiedergli chissà quali e quante cose, ma si rendeva conto che era inutile aprire bocca sia per il gran frastuono del motore del sidecar ed anche per evitare di ritrovarsela piena di polvere. Non aveva mai visto il suo Giovanni correre a quel modo, ma conoscendolo, sapeva che doveva avere le sue buone ragioni. Arrivarono quindi a Sassomatto dove trovarono Antonio e Maria ad accogliergli sull’uscio di casa i quali avevano sentito da un miglio il rumore del motore del sidecar avvicinarsi come un aeroplano. Anche loro non avevano mai visto il loro Giovanni guidare a quel modo. Salutò i suoi cari frettolosamente ed invitò tutti ad entrare in casa. Lo seguirono guardandosi l’un l’altro con un’espressione interrogativa. Quando furono dentro, Giovanni si sedette e chiese dell’acqua fresca da bere. Le domande iniziarono ad arrivare inesorabili: “raccontaci, perché sei così agitato, cosa voleva quel notaio, siamo forse nei guai?”, chiedevano i genitori e la povera Gilda. Giovanni prese fiato e scrollando la testa disse:” nessun guaio, anzi, forse siamo ricchi!”. Iniziò il suo racconto dalle notti passate in bianco per colpa di quella voce, della decisione che prese di assecondarla, della bugia che disse come motivo della partenza (chiedendone scusa), e dell’episodio con cui si concluse il suo viaggio ad Astra, ovvero l’incontro con il vigile. Quando ebbe finito di raccontare, si accorse che Gilda e la mamma Maria avevano una espressione … come dire … inespressiva, mentre papà Antonio aveva già nelle mani una vanga e gli disse:” muoviti figliolo, andiamo subito a vedere se tutto questo è vero”. Antonio uscì dalla casa, seguito da Giovanni, Maria e Gilda. Giovanni si fermò a prendere la sua vanga e si diressero tutti verso il grande macigno. Quando vi furono davanti, a Giovanni non rimase altro che piantare con forza la vanga un passo più il là. Il padre Antonio lo aiutava come se di colpo avesse riacquistato il vigore dei suoi vent’anni. Non immaginavano quanto in profondità e per quanto tempo avrebbero dovuto scavare e se quello era il punto giusto. Ma ad un certo punto la vanga di Giovanni urtò qualcosa di particolarmente duro: forse un sasso? Lasciarono le vanghe e continuarono a scavare con le mani. Quello che iniziò a prendere forma davanti ai loro occhi li lasciò senza fiato. Il coperchio di una grande olla di terracotta. Lo scavo durò due ore, alla fine del quale la olla, alta circa ottanta centimetri e larga centocinquanta, fu portata alla luce. Era pesantissima, ma Giovanni riuscì a sistemarla sulla carriola e a portarla in casa. La depositarono al centro della cucina e dopo aver chiuso tutte le imposte, la porta di ingresso ed essersi assicurati che non vi fossero sguardi indiscreti, vi si sedettero intorno per decidere il da farsi. Giovanni disse che la olla andava aperta per verificarne il contenuto, che ormai tutti classificavano con qualcosa di prezioso; altrimenti chi avrebbe avuto interesse a nascondere un’olla sigillata ma vuota? E poi c’era il sogno …! Giovanni prese un grosso martello ed iniziò a battere intorno al coperchio. Si staccarono dei frammenti di terracotta ed appena fu visibile un incavo più profondo, vi infilò uno scalpello con cui iniziò a fare leva. Il tappo cedette quasi subito rotolando per terra, e quello che si presentò agli occhi degli increduli astanti, furono delle monete di oro. Giovanni piegò la grossa olla su di un fianco e vi infilò dentro una mano con cui iniziò a tirare fuori tutto quello che poteva. Oltre alle monete d’oro, uscirono gioielli, anelli, collane, pietre preziose e tutto quello che nell’immaginario di una persona può raffigurare un tesoro. Ed era tutto conservato come se fosse stato nascosto il giorno prima! Giovanni, Gilda, Antonio e Maria presero ad abbracciarsi ed a piangere di gioia, consapevoli che la loro vita non sarebbe più stata la stessa. Giovanni divenne un ricco signore e proprietario di immensi terreni, poderi e palazzi, Gilda la sua ricca signora e Antonio e Maria ricchi nonni spensierati a tempo pieno. Erano ben voluti da tutti per le opere di beneficienza che costantemente facevano alla comunità e per gli aiuti che offrivano ai più bisognosi. Tutto gli abitanti di Collepasso beneficiarono della ricchezza improvvisa di Giovanni che a suo dire era derivata da un’improvvisa eredità. Qualche tempo dopo, un uomo di fiducia di Giovanni, consegnò in forma anonima un ricchissimo assegno ad un vigile che in quel momento era intento a dirigere il traffico sul ponte S.Giulio, detto anche ponte delle cinque arcate.
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
La riproduzione, anche parziale, senza l'autorizzazione dell'Autore è punita con le sanzioni previste dagli art. 171 e 171-ter della suddetta Legge.
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.
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«Da una storia presumibilmente vera che mi fu raccontata anni fa. I nomi dei protagonisti ed i luoghi riportati sono di fantasia.» |
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