Si può arrivare ad avere pietà di un figlio?
Guardarlo e pensare che probabilmente non c’è una prospettiva futura per lui, se non il definitivo precipitare in un buco nero che lo ingoierà e ce lo toglierà per sempre?
E se non vogliamo che quel buco nero ingoi anche chi lo ama, dobbiamo dunque lasciarlo precipitare senza tendergli una mano, per impedire che risucchi insieme a lui irreversibilmente anche tutti noi?
Ci può essere una disperazione più grande per una madre?
Dove si trova la forza di abbandonare la propria creatura, carne della propria carne, frutto d’ amore immenso, speranza coltivata già molto prima che venisse alla luce, figlio adorato e curato come un seme prezioso destinato a intrecciare le proprie giovani radici all’ albero che l’ aveva prodotto e a produrre a sua volta nel tempo altri semi forieri di nuova vita?
Al giardiniere esperto riesce spesso di raddrizzare un alberello che sta crescendo storto. Ad una madre non sempre è possibile strappare il proprio ad un male che pare inestirpabile, anche se prova a farcela con ogni espediente a sua disposizione, con l’ amore innanzitutto. Forse ha dato tutto a suo figlio, tranne la forza di farcela da solo? Forse doveva lasciare che rischiasse di spezzarsi per capire da solo che stava arrivando al punto di rottura, al non plus ultra?
O forse per gli esseri viventi esiste soltanto un Destino, un Fato, il Caso cieco e indifferente?
A cosa serve il libero arbitrio di cui ci parla la Bibbia, se poi gli eventi dell’ esistenza ci spingono a credere che per noi sia già stato scritto tutto quasi in uno stato prenatale?
Chi risponderà a questi interrogativi?
Il nostro Dio? Un Essere supremo che noi chiamiamo Dio?
E se davvero c’è, questo Dio vorrà perdonare una madre se, stravolta dalla propria angoscia, dubiterà della Sua presenza in questo Universo, che si alimenta del dolore degli uomini senza curarsene affatto?