La collega assente.
In tempo di esami, mi ricordo di quelli di licenza media di più di vent’anni fa, quando nella mia scuola, per la morte del suo amato padre, l’allora unica mia collega di francese si era dovuta assentare, per raggiungere il Piemonte, dove i suoi genitori vivevano da tempo.
Non ho difficoltà nel riconoscere che la collega era più preparata di me, autrice di un corso di francese per la scuola media inferiore e di un altro per quella superiore. Un po’ per amore della stessa materia e un po’ per quello della cultura in generale, parlare, nei ritagli di tempo, con lei era una delle mie attività scolastiche preferite ...
Però io ero un po’ più coraggioso di lei, nel senso che, giunto, a giugno, il momento di scegliere la prova scritta da dare ai candidati, le mie proposte le sembravano sempre un po’ troppo impegnative per i discenti, e alla fine, di comune accordo, sceglievamo quasi sempre una sua prova, più facile.
Ebbene, quell’anno in cui le morì il padre, dovetti sostituirla, e quindi diventai l’unico responsabile della prova da dare, che alla fine, dopo esitazioni e tentennamenti, fu approvata dal Presidente di commissione, e soprattutto piacque a tutti gli allievi, miei e suoi, sia ai più bravi che ai meno dotati, perché essi, posti davanti a certe difficoltà e non ai soliti test edulcorati (come, ad esempio, porre una crocetta sul "vrai" o sul "faux" di una decina di banali affertmazioni), si sentirono più importanti, capirono di essere stati considerati dei ragazzi ormai maturi, che non avevano più bisogno di essere "imboccati" ...
La prova che diedi fu uno dei racconti più brevi dei "Petits poè mes en prose" di Charles Baudelaire, "Le dé sespoir de la vieille": i candidati avevano un paio d’ore di tempo per farne prima la traduzione in italiano, e poi per rispondere, in francese, a una decina di pertinenti domande che avevo preparato.
Riporto qui il testo, nella traduzione in italiano che Alfonso Berardinelli fece per la "Garzanti" .
"La vecchietta rugosa si sentì riempire di gioia nel vedere quel bel bambino a cui tutti facevano le feste, a cui tutti volevano piacere; quell’essere grazioso, fragile come lei, e come lei senza denti e senza capelli.
E gli si avvicinò per fargli delle moine, per scherzare e farlo ridere.
Ma il bambino, spaventato, si dibatteva sotto le carezze di quella brava donna decrepita, e riempiva la casa di urla.
Allora la brava vecchia si ritirò nella sua eterna solitudine; e piangendo in un angolo diceva fra sé: ‘ Ah, per noi vecchie femmine sventurate è passata l’età in cui piacere. Anche ai bambini innocenti, che vorremmo amare, facciamo orrore! ‘ "
L’amico del Presidente.
Per parlare piuttosto bene una lingua straniera (non come i nativi, ma quasi) non è di solito sufficiente applicarsi con determinazione nel suo studio, ma occorre anche una certa predisposizione, che a volte può derivare dall’avere ascoltato, da bambini, una persona che parlava quella lingua, o anche soltanto un dialetto ad essa vagamente rassomigliante.
Io ebbi la fortuna di ascoltare quotidianamente il dialetto pesarese (dialetto neolatino, naturalmente, ma con un evidente sostrato gallico) dalla bocca di mia nonna, che si rivolgeva a me con nonchalance, come se io avessi da sempre conosciuto quel dialetto, finendo così col farmelo imparare ed amare davvero.
Quando mi dedicai allo studio del francese, trovai una strada semiaperta, perché la lingua transalpina mi sembrava quasi soltanto il perfezionamento del dialetto di mia nonna, mi si presentava come un pesarese vestito meglio, elegantemente ...
Chi nell’infanzia, invece, non ha goduto di queste esperienze, difficilmente, anche se diventerà professore, potrà parlare con le inflessioni e i toni giusti la lingua straniera, rivelerà sempre le sue differenti origini.
Era uno degli ultimi giorni del giugno del 1988, e gli esami di licenza media erano appena terminati. Quell’anno avevo insegnato in una scuola media della mia cittadina diversa da quella in cui poi avrei continuato e terminato la carriera: tornando con calma a casa vidi, davanti al Palazzo dell’Orologio, uno degli edifici più rappresentativi del centro storico di Pomigliano d’Arco, due uomini che mi chiamavano calorosamente.
Erano il Presidente di commissione, un preside sulla sessantina che veniva, mi pare, da Caivano, ed un suo amico tunisino, un bel ragazzo di una trentina d’anni di età.
Durante gli esami, la curiosità del corpo docente si era concentrata su quella coppia, qualcuno aveva fatto delle indagini ed aveva appurato che il preside era omosessuale e che portava con sé quasi in ogni occasione il suo amico di un altro continente ...
Quel giovanotto tunisino si rivelò presto una persona culturalmente molto preparata: poneva anche lui, di tanto in tanto, delle domande intelligenti agli esaminandi, e a me, che in quel periodo stavo cercando di imparare qualche espressione araba, corresse gli accenti tonici della frase "al kit tà uta al tà uila" ("il gatto è sotto il tavolo") , aggiungendo che però ormai in Tunisia nessuno diceva più "kit" (arabo classico), ma "gatò s" .
Ebbene, quando, finiti gli esami, quei due mi chiamarono per strada, un po’ mi turbai, avendo saputo i loro gusti sessuali (ero già pronto a dir loro: "Mi dispiace, ma non appartengo alla vostra parrocchia! ") , ma mi tranquillizzai appena il tunisino (i tunisini, si sa, per la lunga dominazione francese sul loro territorio, conoscono tutti molto bene la lingua transalpina), tutto sorridente, mi disse: "Lei sì che lo parla bene, il francese, non come quel suo collega! "
Si riferiva al mio collega di francese in quella scuola, brav’uomo e bravo insegnante, di una decina di anni più grande di me, ma pomiglianese purosangue, che non aveva avuto una nonna semigallica ...
Raramente tornai a casa dalla scuola soddisfatto e contento come quella volta!