II
Si svegliò con la testa pesante e con una grande spossatezza in tutto il corpo. Quella notte il suo sonno si era interrotto più volte, come ogni notte, d’ altra parte.
D’ estate Daniele usciva regolarmente dopo cena e rientrava molto tardi. Ormai aveva diciassette anni e sarebbe stato impossibile imporgli di rimanere in casa, mentre i suoi amici avevano tanta libertà. La consolava l’ idea che fino a quel momento suo figlio non aveva tradito la fiducia che riponevano in lui, e tuttavia non riusciva a dormire tranquilla finché non lo sentiva rientrare. Quella notte aveva davvero esagerato: le tre e un quarto! Un bel caffè e una sigaretta l’ avrebbero rimessa in sesto.
Era un luglio molto caldo, persino là in montagna, anche a quell’ ora del mattino. Uscì sul terrazzo, con il caffè fumante in una mano e la sigaretta già accesa nell’ altra e si sedette al piccolo tavolo rotondo, per godersi il fresco e la vista bellissima del paesaggio.
Proprio di fronte si stendevano i monti dell’ Appennino, orlati dell’ azzurro profondo del cielo, limpidissimo; e sul verde scuro dei pendii scoscesi, si stagliava nitido, in tutta la sua estensione, l’ agglomerato del centro storico, con il belvedere, in fondo, e la lunga fila di tetti rossi, interrotta solo dalle cime svettanti degli antichi campanili. Alle sette in punto si sarebbe sentito il primo rintocco della chiesa madre di San Marco e poi, a seguire, quasi in un concerto, il suono inconfondibile di tutte le altre campane.
La invase una pace dolcissima. Cosa chiedeva di più?
Il posto dove le era toccato vivere, con una bella famiglia e una casa accogliente, tutta sua, era quanto di meglio si potesse desiderare, in un’ epoca in cui la violenza gratuita, la droga, la delinquenza minorile erano ormai caratteristiche naturali dei grandi centri urbani e terrore di chiunque avesse figli in età adolescenziale. Quello in cui viveva con i suoi cari era, dunque, un paradiso.
E un Paradiso era stato per lei il suo villaggio, quando era un’ adolescente.
Lì era nata sua madre, lì avevano lavorato suo padre e i suoi nonni, lì era nata e vissuta anche lei fino all’ età di ventiquattro anni, in una piccola comunità di otto famiglie, che abitavano in altrettante palazzine adibite al personale di esercizio. Quel luogo rappresentava, allora, per gli abitanti dei paesini circostanti, una sorta di Eden, dove si godeva di chissà quali misteriosi vantaggi in termini economici ed esistenziali.
In effetti vi si viveva davvero bene. A distanza di soli tre chilometri dal paese più vicino, era possibile godere di tranquillità e di autonomia e contemporaneamente essere collegati ad una comunità più vasta, dove c’ erano negozi, medici, scuole. L’ automobile, poi, non mancava a nessuno, in Centrale! Quei tempi non sarebbero tornati più, così sereni, così colmi di gioie, così… Le tornò in mente una nota riflessione. che un po’ la immalinconì.
“Il presente, ogni presente, è irrilevante e vuoto, e tale fu il passato, quand’ era presente”.
Forse non era stato tutto così perfetto – pensò tra sé – A renderlo tale, forse, è solo il fascino dell’ indefinito e del vago.
Sapeva bene, infatti, per averlo sperimentato di persona, che solo per effetto dell’ immaginazione ciò che fa parte di un passato relativamente remoto e che pertanto ha perso i suoi contorni precisi, per quanto sia stato doloroso, può produrre nel tempo un’ indicibile pienezza dell’ anima, una sorta di inspiegabile felicità. Ma aveva imparato anche che non basta la consapevolezza dell’ illusorietà di certe sensazioni ad impedirci di ricercarle e di goderne, in una sorta di cupio dissolvi.
Doveva ammettere di provare sempre un piacere sottile nel ricordare il proprio passato. Le pareva, anzi, che per tutta la vita non avesse fatto altro che nutrirsi di ricordi e forse per questo aveva avuto sempre la mania di conservare oggetti, di scrivere diari, di prendere appunti durante i lunghi viaggi che ogni estate suo padre organizzava per la famiglia. Come se si portasse dentro un presentimento, che tuttavia non aveva mai voluto chiarire a se stessa.
Adesso, nella pienezza dei suoi anni, era perfettamente nella norma guardarsi indietro. Ma a ben pensarci aveva vissuto sempre nel passato e nel presente, limitando a brevissimi spazi di giorni o tutt’ al più di mesi, i suoi progetti riguardanti il futuro. In fondo era saggia. Qualcuno aveva detto che l’ unica cosa di cui l’ uomo è realmente in possesso è il proprio passato, ma fino a che punto?
Ci appartiene solo ciò che riusciamo a ricordare; il resto è paragonabile al nulla dello stadio prenatale e, per quanto bello e gratificante esso sia stato, per noi che l’ abbiamo dimenticato è solo nulla.
Si chiedeva con meraviglia come talune persone riuscissero a descrivere con tanta precisione eventi, luoghi, sensazioni, persino i pensieri relativi alla propria infanzia. A tre anni, a quattro anni e mezzo, a cinque… Le pareva davvero molto strano e poco credibile.
Personalmente ricordava la sua infanzia a sprazzi, come pezzi di quadri che escono improvvisamente dal buio per effetto di lampi brevi e intensi.
Era così per i tempi della scuola primaria, le cui sole immagini che riusciva a focalizzare, erano l’aula con i banchi in legno e i calamai incassati nel leggio e il volto della maestra Pia, divenuta nel ricordo dolce come quello di una santa.
Della giovinezza i ricordi si facevano più limpidi, ma anch’essi sporadici, sfocati, tranne qualcuno che rimaneva chiaro e splendente nella nebbia della memoria.
Uno in particolare si stagliava netto su tutti gli altri. Ed era bellissimo e doloroso.