Per raccapezzarsi bisogna tornare qualche secolo indietro
e più precisamente…
Correva l’ anno 1492, quando un temerario Cristoforo, a sua insaputa,
scopriva un nuovo mondo. Ma non avrei mai immaginato
che cinquecento anni dopo, sulla caravella della mia vita,
un altro Cristoforo, avrebbe gridato: TERRA, TERRA, venendo al mondo,
nel mio mondo! Anch’ io come il primo Cristoforo, avevo in mente altri approdi,
ma la vita come quasi sempre fa, se ne frega dei tuoi,
e presenta il suo, unico, reale, incontrovertibile.
E così arrivasti tu, "Pepo" nella tarda sera del 4 settembre,
a fine di una lunga, faticosa giornata per mamma Giordana.
Tu, insieme a noi in sala parto, dopo tanto provarci e riprovarci,
eri a un passo, ti sfiorai per un attimo i capelli, ma rimanevi lì, incastrato.
Così arrivò inevitabile, la decisione di andare ai tempi supplementari.
Via, di corsa in sala operatoria, per liberarvi entrambi.
Alle 19 e 55 uscisti fuori dalla navicella, dimenticando la tuta a bordo.
La stadera dell’ ospedale si fermò a un capello dai 5 chili.
E non fu facile per me e il giovane infermiere di turno
metterti addosso una tutina che ti stesse a modo.
Fu un giorno che mise a dura prova tutte le certezze, meno una,
che si rafforzò appena ti vidi, il nome che avresti portato per la vita.
Non era stato ancora pattuito, che ti saresti chiamato Cristoforo,
anzi era un nome solo mio, ma alla fine di quella traversata oceanica,
fu perfetto anche per te, seppure contestato nei giorni a venire.
“ Cristoforo” la mia voce risuonò come una musica nella sala
fino a rimbalzare fuori le mura dell’ ospedale.
Mi sembrò di sentire la presenza del grande navigatore genovese.
Si, era lì con noi a condividere quella scelta curiosa e coraggiosa.
Ma quel nome rappresentava ancora di più, un segno, un’ eredità.
Cristoforo, portatore di Cristo, ovvero di luce.
Trovai tutto questo come un grande abbraccio di benvenuto per te.
Tu, un fragile bambino, ora, eri approdato nel difficile mondo degli umani.
Amore, tenacia e speranza, sarebbero stati necessari ogni giorno,
e Il tuo nome li custodiva dentro.
L’ infermiere era rientrato in reparto, eravamo soli,
per il nostro primo incontro ravvicinato.
Mi avvicinai con gli occhi di gatto, come per giocare,
un sorriso largo s’ impadronì del mio viso.
Ruppi gli indugi, presi quel fagottino strillante sul fasciatoio
tra le mie braccia, lo strinsi a me e non volò più una mosca.