Il sole picchiava sulle finestre di legno vecchio, dove silenziosi anche i tarli abitavano;
a volte mi chiedevo se forse anche loro non avessero caldo, chiusi in quei piccoli buchini neri del legno.Era estate e tutto brillava d’ azzurro; anche le cicale sulle foglie dei tigli cantavano festose e, di quel canto, il vento ne gioiva portandolo con sé, in ogni luogo, un canto che il vento trasportava su quel piccolo spazio di casupole donandole allegria.
“Il Monticchio”, così era il suo nome, un promontorio fatto col compasso, un rialzo di falsipiani fin ad arrivare sulla cima, la parte più alta, dove, fiera, si erge la mia dimora, come a dominare tutto il sottostante Monticello, nato per caso nel verde di campagna, e composto di viuzze intersecate a destra e sinistra nei falsipiani che si vanno ad intrecciare con altre case.Un girotondo di abitazioni serene, attaccate l’ una con l’ altra da una bellezza naturale; quel luogo ad ergerlo in abitazioni fu mio nonno Gratiliano che, avendolo ammirato, lo scelse per portarci la sua famiglia. Era, allo stato naturale, un piccolo pezzetto di Paradiso ed in seguito vi costruì, oltre la sua abitazione, anche altre case, per unire parenti e affini.Case contornate da piante e fiori ad incorniciare porte e finestre, un piccolo giardino posto sul vecchio tufo, era lì casa mia che, prepotente, ancora è viva nei miei sogni.Trentacinque anni vissuti con gaiezza, dove quella bimba si fece donna!Piccolo spazio e bei ricordi a riempire la mente; avevo sei anni e sembravo una cerbiatta mentre correvo nei sottoboschi per raccogliere viole e ciclamini; e in quei vicoletti antichi del Monticchio ancora si ode il mio cuore battere, mentre entravo ed uscivo in quelle vecchie porte che scricchiolavano come cicale al sole. Avevo gambe lunghe e magre e le trecce ad incorniciare il viso; oggi le mie amiche ancora ricordano quelle trecce. “ Oh, di quel tempo ho bei ricordi e sono beneficio per il mio cuore.
Era l’ età in cui il mondo lo vedevo da un angolo ristretto e la mia vita era lì in quello spicchio di cielo e non esploravo altri mondi oltre al mio Monticchio. Il futuro era dove viveva mia Madre e mio Padre; in quella barca di Noè avevo fatto salire tutta la mia famiglia, le amichette del cuore, i grilli che cantavano su prati, i fiordalisi, i papaveri nei campi di grano, le lucciole ad illuminare le sere di giugno e tanti uccellini a cantare gioiosi; insomma, uno spazio ristretto, ma largo di cuore. In quella barca di Noè c’ erano pochi beni materiali ma, tanto amore da donare e ricevere e quel poco posseduto era l’ infinito. Vigeva un detto: “ Chi si accontenta gode”. Furono i tempi in cui la gente, accontentandosi, godeva serena e senza stress; la parola stress non era ancora nei nostri vocabolari.Noi bambini giocavamo in gruppo all’ aria aperta e il sole, da lassù, ci baciava le guance, colorandole di rosa; c’ erano dei giochi semplici che condividevamo allegramente anche ai bordi delle strade, visto che di automobili ne passavano poche. C’ era il gioco della Campana: si scrivevano dei numeri con il gessetto bianco sul selciato della strada e, saltellando su di essi, non si doveva mai sbagliare piede; il gioco dei bottoni: si tiravano due bottoni, uno io e l’ altro l’ avversario; avvicinandoli il più possibile utilizzando le dita della mano, vinceva colui che riusciva a farli toccare; il premio erano due bottoni . Ad incantare il cuore c’ erano le favole, raccontate con dolcezza dalla bocca di mia madre, quelle favole da riempire i giorni tanto da ritrovarsi in quel mondo incantato di Principi e Principesse: le favole sembravano vere! Sei anni, dove la melodia della gaiezza viveva prepotente a dipingere quadri colorati d’ autore e figure danzanti a colmare i vuoti, dalle carenze materiali. La fantasia era un gioco di grande compagnia, pensiero estenuante a divenire essenziale per colorare le ore pomeridiane. Ogni pomeriggio un giocoso canto arrivava in lontananza fino al mio abitare e, ascoltandolo, ne restavo stupefatta: cuùù..cuùù, su quel strusciare di note ripetuto per ore intere, mi distraevo ad ascoltarlo. Un giorno chiesi: “ Mamma, come si chiama quest’ uccello che canta per ore?” “ Il Cuculo”, mi rispose e quel cuculo l’ avrei ascoltato anche negli anni a venire, dalla stagione estiva fino ad autunno inoltrato, e la canzone era sempre la stessa. Ad ascoltarlo l’ orecchio ormai si era abituato; erano suoni e canti che amavo come l’ abbaiare dei cani, il canto degli uccelli, lo sciacquio del fosso che ascoltavo come fosse magica melodia. Erano il concerto della mia vita! Suoni dolci e naturali; la natura cantava per noi; era un’ orchestra di lodevole partitura e tutti gli strumenti erano ben accordati. Nei pomeriggi assolati e caldi, i grandi andavano a riposare, ma noi, piccoli amici vicini di casa, ci riunivamo all’ ombra dei tigli per giocare e parlare. Si giocava al “ gioco del perchè?”: alternandoci uno con all’ altro, consisteva nel porre domande e risposte con i “ perché”. Alcune volte raccontavamo storie e favole. nostri divertimenti erano l’ interagire con gli amici e insieme divertirsi.
Un pomeriggio ancora lo ricordo, non era diverso dagli altri pomeriggi ed eravamo sotto un albero di tiglio, seduti a circolo a parlare e scherzare, quando da lontano vedemmo un uomo venire dalla nostra parte. In mano aveva uno strumento di cui ancora non avevamo molta conoscenza; era una macchina fotografica professionale! Ci guardammo con gli amici, dicendoci: “ Chi è quest’ uomo?” era strano vedere un forestiero in quel piccolo paese di poche anime... Si avvicinò, scrutandoci, e noi guardavamo più quello strumento che stringeva fra le mani, che lui.
Si rivolse a noi con voce leggera dicendoci: “ Bambini, volete che vi faccia una fotografia? Se volete farla dovete prima dirlo alle vostre mamme! La facciamo subito e domani, quando ritorno, la consegno alle mamme che mi daranno i soldi! M’ alzai di scatto e in un batter d’ occhio fui in piedi. “ Si, la voglio fare io!” E, continuando decisa: “ Sono Adele Vincenti, mamma domani te la pagherà!” Lui disse: “ Bambina, sei sicura che la mamma domani me la paga?”. “ Certo che te la paga, dove ci mettiamo a farla?”. “ Scegliti il posto”. Precipitosamente attraversai la strada, e sorridente, mi misi davanti al muro della casa di zia Chiara e zio Checco, che ancora oggi ricordo con benevolenza, ed anche loro mi volevano bene. Andavo spesso dentro la loro casa a tenergli compagnia. Il fotografo fece qualche scatto e mi disse: “ A domani”.Oh, lo spazio del Monticchio era ridotto, ma d’ amore era stracolmo!
Il giorno dopo tornò quel signore distinto con in mano la mia fotografia e domandava dove abitasse Adele Vincenti. La fotografia la consegnò a mia madre al costo di 300 lire. Per mia madre fu una sorpresa inaspettata e guardava con stupore la fotografia fra le mani. Dedussi che le piacesse perchè sul viso mostrava un sorriso d’ approvazione e, soddisfatta, la pagò. La tenne fra le mani, ne era estasiata e s’ innamorò due volte della sua bambina; due occhi dolcissimi e trasparenti la guardavano con benevolenza e quel sorriso impresso sulla carta la fece riflettere, ne son certa. Forse si sarà domandata: “ Ma è proprio mia figlia questa bella bambina?”. Il tempo non era clemente con la mamma; il lavoro di casa le assorbiva quasi tutte le sue ore. Quel tempo doveva dividerlo con tutta la famiglia, che era numerosa, e con la sua bambina, nata inaspettatamente dopo tre figli maschi ormai adulti, e con suo padre in casa da accudire.
Il tempo non le lasciava molto tempo e non poteva godere di quel premio che la vita le aveva donato; ma, l’ amava molto, e quella fotografia venne come per magia; incorniciandola, la espose su un mobile della sala da pranzo per ammirarla ogni qual volta le passasse davanti. Ne fu orgogliosa la sua bimba che in quella foto aveva le trecce lunghe e un sorriso dolce e solare da rubarle ogni consenso: era la sua bimba!
Benedì quel fotografo che all’ età di sei anni immortalò in quel pezzo di carta in bianco e nero la sua piccola, prima che il tempo ne rubasse l’ immagine!