Non chiusi occhio, sì e no riuscii a pezzi e bocconi a staccare il cervello per un paio d’ore.
Alle 9: 00 dovevo andare in tribunale, al solo pensiero di rivedere il mio ex, i giornalisti, le foto, ascoltare di nuovo le testimonianze, le perizie mi veniva la nausea. Ci son voluti quasi sette anni e una barcata di soldi, per far muovere la giustizia e qualunque sia il risultato finale mi porterò per sempre dietro le fratture, le botte e le violenze subite.
Non scorderò mai, volevo un compagno per la vita, mai avrei pensato di finire in questo stato.
Le mura domestiche sono il rifugio dal mondo esterno, il posto dove bisognerebbe stare in pace e calma e non un inferno. Tutto questo dolore era evitabile, ma eravamo due ecosistemi impossibile da conciliare.
Mi lavai la faccia nonostante le lacrime scendessero ancora.
Feci il caffè, mi detti un po di trucco, giusto per coprire le occhiaie, Raya dal suo angolino mi guardava.
Suonò il citofono, era mio fratello, se ripenso alle volte che voleva farsi giustizia da solo, lo avrebbe ucciso e si sarebbe rovinato, lo feci desistere tirando in ballo la famiglia, mossa non etica, ma non volevo che pure lui pagasse, carezzai il cane e chiusi la porta.
Durante il viaggio persi la nozione del tempo, tremavo e sentivo un disagio crescere come un’ onda di marea, buttai giù tre valeriane.
" Coraggio Cri, dai che ci siamo" disse mio fratello stringendomi la spalla.
Scesi dalla macchina e un giornalista di "Qui Livorno" pelato più di cazzo di attore porno e alto quando un francobollo schiacciato, mi si parò davanti mettendomi lo smartphone sotto il mento chiedendomi " Cosa si aspetta da questo processo? pensa di avere giustizia? "
Risposi bruscamente " Chiedi a tua sorella se avesse subito quello ho sopportato io e vedi che ti risponde nano da giardino. Sparisci ".
Feci ancora un’ altra decina di passi e un reporter della 7 mi bloccò il passo " Cristina Zecchi, cosa si aspetta da questo processo? "
Il mio nome, era un secolo, che non lo sentivo pronunciare, di solito ero “ la stronza”, “ la puttana”, “ la troia”.
Mi ripetè la domanda, fortuna mio fratello mise in avanti il braccio e mi tolse da ogni impiccio.
Stavo per cedere, volevo urlare con tutta la rabbia del mondo: “ voglio vendetta”, “ voglio vederlo morto” sparite, levatevi dai coglioni branco di avvoltoi maledetti “.
Sì, morto, come durante l’ ennesimo litigio, mi strinse le mani attorno al collo dicendomi " devi morire puttana " persi i sensi.
Al risveglio ero a terra, dolorante, con due costole rotte ed un occhio tumefatto, mi trovò la colf che veniva a pulire casa un giorno sì e tre no, non m’ avesse trovato, sarebbe stata la fine.
Mi trasferii da mio fratello per un periodo, un calvario fatto di notti in bianco, anoressia, crisi di panico, paura della mia stessa ombra. Le volte che uscivo, cercavo sempre un luogo affollato e vicino ad un negozio, ogni angolo che incrociavo mi fermavo, avevo timore di ritrovarmelo davanti.
Non era vita, quando sarebbe finita?
Gli amici o quelli che credevo di avere, non si fecero sentire, mai, non chiesero, sparirono. Come se non esistessi, come se fossi morta... in un certo senso lo ero.
Ed ora eccomi qua a rivivere quel maledetto passato.
Con tutta la montagna di accuse, denunce, querele e minacce si beccò solo l’ obbligo di firma ed un proveddimento restrittivo, non poteva avvicinarsi a meno di cinquecento metri da me... bella stronzata.
Cambiai città, cambiai casa e cercai di ripartire da quel poco che mi era rimasto.
Fine IV parte