Ne era passato del tempo, quando con le ginocchia sbucciate tornavo a casa piangendo e bastava un bacio da mia madre che il bruciore si attenuasse. Ne era passato del tempo, quando tutto rosso in viso incontravo la bambina più bella della scuola ed il cuore sembrava impazzire. Poi il liceo e le scorribande con gli amici, le corse spericolate in macchina e l’alito sempre un po’ pesante d’alcool.
E quella sera del 17/07/2007, il numero 7 che immancabilmente mi rincorreva nelle scelte, nell’amore ed anche nei giorni più bui della mia vita, come quella sera fatale. Eravamo tutti brilli ed euforici, stavamo rientrando in auto, dopo una serata in discoteca, gasati dall’incontro con due bellissime ragazze e quelle pasticche, innocue come dicevano, messe nel bicchiere di Vodka.
La testa cominciò a volare e facevo fatica a tenere la concentrazione nella guida. La velocità sempre più forte, mi piaceva premere l’acceleratore a tavoletta, sentire i brividi percorrermi la schiena e le urla un po’ strane dei miei amici ubriachi come me. La nostra auto procedeva a zig zag, mentre il grande mezzo che incontrammo, proseguiva ad andatura normale nella sua corsia, improvvisamente persi il controllo della vettura. Fu uno schianto terribile, praticamente andammo a finire sotto il camion e fummo stritolati come una lattina di birra.
Poi il buio…
Mi ritrovai in un letto d’ospedale senza più le mie gambe, i miei amici erano tutti morti ed io in quel momento, desiderai che fossi morto con loro. I miei genitori mi stavano vicini giorno e notte, ma le notti erano ancora più terribili del giorno. Rivedevo continuamente la scena dell’incidente per poi svegliarmi terrorizzato ed urlando.
Dopo due mesi di lunghissima degenza ritornai a casa, tuttavia, invece di sentirmi rincuorato ed essere finalmente fra le mie cose, mi sentii peggio di come stavo in ospedale. Non era facile accettare di essere un invalido per tutta la vita e soprattutto per un ragazzo giovane come me, di soli venticinque anni.
Non era nemmeno facile condividere la mia immane tragedia con gli altri e dipendere in tutto e per tutto dalla mia famiglia. Ma quello che mi pesava di più era il grande rimorso che provavo per i miei amici, mi sentivo l’unico responsabile per la loro morte. Io mi ero messo al volante ubriaco, non mettendo in conto che sarebbe potuto accadere quello che poi immancabilmente era successo. Inoltre, visto lo stato in cui eravamo ed essendo il più grande della compagnia, avrei dovuto avere il buonsenso di chiamare qualcuno che ci venisse a prendere.
Da quel maledetto giorno per me il tempo si era fermato, così come la mia vita. Si può anche provare ad immaginare cosa significa vivere su una sedia a rotelle, ma nella realtà era tutta un’altra cosa. La grande disperazione prima, la ribellione dopo per un destino così crudele, reso ancora più ingiusto per la consapevolezza di esserne stato complice. Infine, la frustrazione accompagnata da una rassegnazione forzata.
Trascorrevo le mie giornate in casa, accanto alla vetrata che dava sul giardino e vedevo scorrere le stagioni, vivendole da spettatore passivo. Così osservavo il grande albero di castagno che in primavera si ricopriva di fiori, la giurranda e poi in estate di ricci pieni di marroni.
Poi l’albero si denudava, al colore vivace dei crisantemi, e nel ricordo per quegli amici che riposavano per sempre, i ricci diventavano un tappeto spinoso sulla terra stanca ed i suoi rami sembravano braccia rivolte verso il cielo a chiedere un inutile perdono. E quando in inverno, il silenzio bianco scendeva ricoprendolo di luce, diventava un fantasma dei miei incubi peggiori.
I miei genitori vedendomi in quello stato di perenne apatia, mi portarono da uno strizza cervelli, ma dopo tre anni di terapia, visti i risultati insoddisfacenti, si rassegnarono all’idea che niente mi avrebbe fatto più superare l’indifferenza verso la vita.
Ero convinto che fosse giusto così, non meritavo niente, questa era la punizione per il mio crimine.
Poi un giorno di primavera, ero solo in casa e come sempre dietro alla finestra, quando vidi una figura attraversare la strada ed infilarsi nel cancello di casa. Pensai tra me: ”E questa chi diavolo è?”
Non avevo voglia di parlare con nessuno. Quando si avvicinò di più, notai che era una donna più o meno della mia età. Cercai di nascondermi ma fu troppo tardi, lei mi notò e suonò al campanello.
Risposi al citofono: ”Non so chi è lei ma se è una venditrice porta a porta non ho bisogno di nulla, se poi è una testimone di Geova se ne può andare, non mi interessano le religioni di nessun Dio.” Lei mi rispose alzando la voce: ”Non sono né l’una né l’altra, sono un ufficiale giudiziario, le devo consegnare una notifica per una sanzione non pagata.”
Ironia della sorte, era un verbale proprio dell’auto dell’incidente. La feci entrare, lei sorridendo esclamò: ”Cos’è ha paura che la mangi?”
Elusi di proposito ciò che aveva detto e firmai per l’avvenuta notifica del verbale. L’accompagnai alla porta, quando lei continuò dicendo: ”Lo sa che ha un bel giardino? Sicuramente avrà bisogno di molte cure...”
Risposi un po’ seccato per l’invadenza della ragazza: ”E’ mia madre che se ne occupa, come vede sono impossibilitato a compiere qualsiasi cosa.”
Lei stupita mi disse: ”E perché no, lo può fare benissimo, anzi, se mi permette le posso far vedere come si fa. Potrei ritornare domani se vuole, il mio nome è Rossella.”
La guardai, non so perché ma avevo voglia di rivederla. Per la prima volta una persona non mi aveva guardato con commiserazione e non mi aveva fatto pesare il fatto che ero seduto su di una sedia a rotelle.
“Ok, mi ha convinto, voglio proprio vedere cosa sa fare.”
Risposi abbozzando un timido sorriso. Rossella si presentò il giorno dopo in tenuta da giardinaggio e così fece nei giorni successivi. Cominciai a conoscere i nomi dei fiori, ad invasare nuovi semi, ad innaffiare, a potare i rami inutili. Non potevo camminare ma le mie braccia le potevo usare ed anche benissimo. Diventai bravissimo e non solo, cominciai a documentarmi su tutto ciò che riguardava le piante. Sicuramente questo era merito di Rossella anche se non riuscivo a capire per quale motivo lei si interessasse a me.
Ormai ci vedevamo spesso ma nonostante ciò, non avevo mai fatto domande sulla sua vita privata e lei sembrava contenta di ciò. Tuttavia, la curiosità di sapere se avesse un marito o un compagno era diventata un pensiero assillante a tal punto che un giorno presi coraggio e partendo da molto lontano le chiesi: ”Rossella volevo ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me, ma non vorrei rubare altro tempo ai tuoi affetti.”
Lei si voltò fissandomi negli occhi ed interrompendo per un attimo quello che stava facendo mi rispose: ”Non ti preoccupare ho tutto il tempo che voglio.”
Ma non mi sfuggì un velo di tristezza che aveva attraversato i suoi occhi chiari. Comunque non replicai, non volevo rovinare l’armonia che si era creata fra noi. Continuammo la nostra passione con costanza ed eravamo diventati veramente in gamba, tanto da ricevere i complimenti di tutte le persone che potevano ammirare i nostri fiori. Poi mi venne l’idea di dedicarmi alle orchidee, era sempre stato il mio fiore preferito, così regale e prezioso. Iniziai a coltivarne alcune molto rare e dai bellissimi colori.
Un pomeriggio arrivò Rossella entusiasta, sventolando una rivista e mi disse: ”Claudio, leggi qua, c’è un concorso per le orchidee più belle, daranno un premio al vincitore e poi verrà inserito nella rivista botanica. Ero infastidito, non avevo nessuna intenzione di farmi vedere in giro in quello stato, non volevo la pietà di nessuno.
L’aggredì dicendo: ”Ma che ti è saltato in mente, non se ne parla proprio, chi ti ha detto che ho voglia di partecipare ad un concorso e rendere pubblica la mia passione?”
Così dicendo la salutai in malo modo e rientrai in casa. Lei mi urlò dietro: ”Benissimo, continua a fare l’orso, tanto sai fare solo quello!”
E se andò sbattendo il cancello. Non si fece vedere per molti giorni ed io anche se combattuto, non tentai di richiamarla, mi mancava terribilmente ed avevo tanta paura di ritornare come prima. Continuavo ad occuparmi del mio giardino ma non era la stessa cosa di quando lo facevo insieme a Rossella.
Poi finalmente una mattina la vidi arrivare ed il mio cuore cominciò a fare le capriole. Mi ero innamorato perdutamente, questa era la verità…ma sapevo che era un amore impossibile. Lei così bella vicino ad uno storpio come me. La salutai con un sorriso dicendole: ”Ce ne hai messo di tempo per ritornare; ancora arrabbiata?”
Lei cocciutamente mi porse i moduli di iscrizione per il concorso intitolato: ”Profumo di orchidee”.
Non sapevo cosa dirle ma di una cosa ero certo non potevo rischiare di non vederla più e quindi risposi: ”Alla fine ce l’hai fatta”.
Rossella mi abbracciò d’impeto e mi accorsi che non era solo un gesto d’affetto ma qualcosa di più. Partecipai alla manifestazione con accanto la mia fata, così la chiamavo. Quel giorno non provavo disagio per le mie condizioni, anzi ero orgoglioso di essere riuscito a superare le mie paure e le mie insicurezze. La giuria decretò il vincitore e con grande sorpresa sentì il mio nome. Avevo vinto, la mia orchidea era stata giudicata la più bella, ma non avevo vinto solo un concorso di fiori avevo vinto una scommessa per la vita.
Ero rinato una seconda volta, infatti mi era stata data la possibilità di vivere nuovamente senza sprecare nemmeno un giorno. Rossella non mi lasciò più, in seguito mi confidò di essere la sorella di uno dei miei amici morti e di avermi voluto conoscere per vedere chi era il colpevole della morte di Luca. Voleva vendicarsi, distruggermi ma poi aveva compreso il mio grande tormento e la mia sofferenza; aveva capito anche il mio pentimento e così senza volerlo, si era innamorata di me.
Il mio racconto finisce qua, ora devo andare mi sta chiamando, abbiamo in programma una gita sul lago, lei sarà le mie gambe ed io per sempre il suo grande amore.
Insieme scaleremo la vetta per la vita…