Sono lì. Riesco a vedermi. Un mucchietto di vestiti scomposti. In un angolo. Sul pavimento. E’ finita. Anche questa volta. Il mio corpo è tutto un dolore. Pulso, come una lucetta intermittente.
Il sangue sul pavimento si sta raggrumando. E’ appiccicoso. E’ caldo. Sento che il pavimento mi avvolge. Vorrei che mi inghiottisse. Per sempre.
Anche questa volta è colpa mia. Sono stata io. Lo provoco. Non me ne accorgo. Sono una stupida. Ha ragione lui: mi sta educando. Lo fa per il mio bene. Non dovevo rispondere, ma non imparo mai. È più forte di me: difendermi.
- Lo stavi guardando!-
- No, ti giuro…-
- Sta zitta! Non sei altro che una puttana. Ti dico che lo stavi guardando e lo hai pure sfiorato mentre ti passava il bicchiere!-
- No, davvero non l’ho guardato…-.
Non ho finito la frase. Il primo colpo è arrivato. Lo guardavo. Volevo capire da dove avrebbe cominciato a punire. Questa volta. Lui mi guardava. Io guardavo lui. Fisso negli occhi. Ho sbagliata. Avrei dovuto guardare anche le sue braccia. Un pugno. Il braccio destro teso, all’indietro, per acquistare potenza e poi secco sulla mia faccia. Gli occhiali sono volati dall’altra parte della tavola. Non li ho seguiti con lo sguardo. Li ho sentiti atterrare. Mi sono ritrovata a terra. Stordita. Sono rimasta immobile. E’ solo l’inizio. Il calcio, nello stomaco è arrivato subito e mi ha sbattuta contro la credenza. Ho sentito i bicchieri cozzare tra loro. L’ho parato con le braccia. Ho sentito il mignolo spezzarsi. Ho trattenuto l’urlo.
E continuo a ripetermi: - Non sono qui. Non sono qui. Non sono qui. Il lo amo. Io lo amo. Io lo amo.- per non sentire le botte. Per non sentire la sua voce che mi insulta. Adesso mi lascio andare, così mi ammazza. Una volta per tutte. Così è finita con questa paura. Che la riconosci dall’odore. La paura di non sapere come devo comportarmi. La paura di non riuscire a decifrare di che umore è da come inserisce la chiave nella toppa. Interpretare dai suoi passi, come gli è andata la giornata. Fare finta di dormire oppure no, quando entrerà in camera da letto.
Decidere in una frazione di secondo…tanto non serve mai. Il pretesto lo trova sempre: la pasta troppo cotta o troppo al dente; la camicia stirata piegata anziché appesa. Solo pretesti. Per massacrarmi di botte. Per violentarmi. Per farlo sentire un vero uomo.
E poi finisce tutto. Lo sento da come respira. Affannato. Allora si siede. Per un po’ mi sento i suoi occhi addosso. Lo so, mi guarda ma non mi vede. Non mi muovo. Nasconde il viso tra le mani. Piange. Ma io continuo a non muovermi. Ho paura che stia fingendo. E’ già successo. Dopo un po’ si alza. Mi è accanto. La percepisco la sua presenza. Si china. Io trattengo il fiato. La sua mano mi accarezza. Io non mi muovo. Parole incomprensibili gli escono dalla bocca. Somigliano a scuse. Mi arriva solo un: - Io ti amo, non succederà più…- Ora è finita, davvero. Va in bagno. A vomitare. Torna in cucina. Io non mi muovo. Va in camera da letto. Spegne la luce. Passano i minuti. Si è addormentato. Non riesco ad aprire un occhio tanto è gonfio. Cerco di alzarmi. Ho male. Tanto. Non guardo il riflesso della mia faccia nella vetrinetta. Non posso. Apro il cassetto. Le ginocchia mi cedono. C’è il coltello, quello per la carne. Mi gira tutto intorno. La luce si riflette sulla lama e mi ferisce gli occhi. Vado in camera da letto. Dorme. Tranquillo. Ha le labbra imbronciate, come quelle di un bambino che sta per combinarla. Io lo amo. Glielo pianto nel cuore. Un colpo solo, con entrambe le mani. Sento che tutti i quindici anni di botte si stanno scaricando, in quell’unico colpo. Mi sento leggera. Liberata. All’improvviso.
Quasi non si muove. Spalanca solo gli occhi e impreca: - Che cazzo…- Parole, come se le avesse preparate da tempo. Non c’è stupore nei suoi occhi. Io lo amo. Tanto.