Sono qui, da ore, immobile. Gli occhi si stanno abituando all’oscurità della sera e i rumori giù in strada si stanno spegnendo. Non ho voglia di muovermi. La sagoma di questa poltrona aderisce perfettamente alle pieghe del mio corpo, quasi che ne fosse il prolungamento.
Le luci che lambiscono la mia oscurità proiettano sul muro di fronte a me sagome mostruose: mi sembrano vive e sembrano essere qui per me, a ridere di me.
Sto aspettando da giorni, ormai ho perso il conto, ma non succede nulla.
Penso a te e non vorrei: il dolore è diventato fisico e a tratti non riesco a sopportarlo: mi spezza in due.
Sei nei miei pensieri, sei dentro la mia carne e io mi sento svuotata, annichilita da questo tuo ostinato silenzio. O sono io quella ostinata, quella che crede che non è finita davvero?
E pensare che mi hai presa, per principio, perché continuavo a dirti di no e mi hai fatta a brandelli.
Maledetto! Sei riuscito ad annullare la mia volontà , mi hai tolto ogni energia solo per fartene vanto.
Non avrei dovuto cedere, nonostante quell’ intensità che sentivo scuotermi dalla testa ai piedi ogni volta mi stavi vicino, nonostante i tuoi sguardi che mi facevano sentire sempre fuori posto, sempre e solo come se fossi nuda.
Lo so quello che dicono di me in ufficio e non me ne frega niente, più niente: questo dolore è solo mio, mi appartiene.
La vedo scorrere, la nostra storia, se chiudo gli occhi.
Ti ricordi quel venerdì sera, quando sei venuto a casa mia con la scusa di portarmi dei documenti che avevo dimenticato di firmare? Non volevo neppure farti entrare. Ti ho fatto aspettare sul pianerottolo mentre io rientravo e apponevo le firme, e quando ti ho restituito i documenti hai cominciato a fare domande sul contratto e così non ho potuto evitare di invitarti a entrare.
Ti sei seduto sul divano e mi hai chiesto se potevi fumare. Rammento i tuoi gesti lenti, misurati, sicuri mentre il mio cuore sembrava impazzito e temevo che tu potessi udire la guerra che avevo nel petto. Le volute di fumo ti danzavano intorno al viso, sfumando quel tuo dannato modo di guardarmi.
Ti ho offerto un caffè solo per potermi allontanare e cercare di ritrovarmi. Mi seguisti in cucina, silenzioso, mi abbracciasti, da dietro. Io mi irrigidii, ma tu sorvolasti. Con le labbra mi accarezzasti l’orecchio, il collo mentre le tue mani non mi mollavano, ferme sulla mia vita. Il tuo corpo, come in una danza, sfiorava il mio e si allontanava: mi facevi sentire il peso del tuo desiderio affinché si facesse strada nel mio. E le tue mani, Dio le tue mani: sempre più decise sui miei fianchi, sui miei seni.
Mi tirasti su la gonna, senza una parola, senza un sussurro. Ti insinuasti dentro di me senza neppure toglierti il disturbo di spogliarmi, con un impeto che mi travolse, nonostante la mia testa continuasse a dire di no.
Quando i sensi si placarono, mi facesti voltare e mi abbracciasti, così forte da togliermi il fiato e mi riempisti il viso di baci piccoli e fitti ripetendo all’infinito che mi amavi.
Cercai di liberarmi dalla tua stretta, era venuto il momento di parlare. Mi ricomposi con imbarazzo, sentendomi addosso ancora i tuoi occhi. Non ti guardai e cominciai a dar corso ai miei pensieri.
Cominciai dicendoti che non era pensabile una relazione tra noi: lavoravamo insieme e… Mi interrompesti e pronunciasti quelle parole con una forzata pacatezza, ricordi? L’età non conta? Mi accasciai su una sedia: tredici anni, tredici anni mi separavano da te e in quel momento ne sentii tutto il peso.
Ti risposi che anche quello era un valido argomento per mettere fine a…Non terminai la frase, mi raggiungesti e prendendomi il viso tra le mani, mi baciasti sulla bocca, per la prima volta…
Riuscisti a convincermi: rivoluzionai il guardaroba, svecchiai il taglio dei capelli: volevo essere giovane, volevo sentirmi giovane.
Ti lasciai entrare nel mio letto e nella mia vita, annullandomi completamente in nome di ciò che mi stavi regalando e per questo ti permettevo tutto: ero convinta di essere in debito con te, per quelle briciole che mi gettavi ai piedi.
Mi sono umiliata, nel tentativo di non leggere i segnali del tuo passato capriccio. Sei mesi, questo è durato. Poi ti ho visto, in ufficio, con quella ragazzina: gli sguardi, gli ammiccamenti, le risate senza senso, le mani che si sfiorano casualmente, le tue bugie.
Serate trascorse ad aspettarti ad elemosinare una telefonata…che non arrivava mai.
E sono ancora qui, chissà forse questa sera sarà diverso e chiamerai…