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Torna a casa

Amore

Sono qui, stai tranquillo. Non andrò via, aspetterò con te che la notte si dissolva. Vorrei prenderti la mano e accarezzarla, ma ho paura di farti male. Altro male.

I giorni non sono mai tutti uguali. Ti alzi la mattina e pensi che dovrai fare le stesse identiche cose che fai da una vita. Ma all’improvviso qualcosa si spezza, da qualche parte.

In questa stanza non c’è neppure una finestra, ci siamo solo tu ed io e queste macchine che parlano tra loro. Io non lo so cosa si dicono, ma solo che parlano di te e dei segnali che da te arrivano: ti prego torna da me, torna a casa.

Dicono che dovrei parlarti e farti ascoltare la tua musica, potrebbe aiutarti. Ci provo a parlarti, ma la voce non mi esce. Tutto quello che vorrei dirti si è annodato in gola in un groviglio che non riesco a governare. Nella testa le parole mi rimbalzano, ma la voce non riesce ad uscirmi dalla bocca.

Laura e tuo padre sono dietro quella vetrata, da due giorni, sempre appiccicati a quel vetro, in attesa, ti stiamo aspettando.

Laura mi ha detto: - Mamma non può andarsene, abbiamo litigato ieri e non ci siamo salutati. Come faccio? – La mia Laura, a volte mi fate impazzire con i vostri battibecchi, ma lo so quanto vi volete bene e come vi aiutate: se uno rallenta l’altro si ferma ad aspettare…i miei ragazzi.

Ma io lo sapevo. Nell’attimo esatto in cui tu scivolavi via dal mio corpo, nell’attimo esatto in cui recidevano il cordone ombelicale, io lo sapevo: ti stavo perdendo. Nulla avrei potuto più da quel momento in poi per proteggerti.

E quest’angoscia mi è vissuta accanto, ombra latente eppur presente, in questi anni, in tutti questi anni. A volte si assopiva e mi regalava l’illusione di averla soppressa, di essere finalmente riuscita a liberarmene. Ho vissuto questa chimera soprattutto quando eri piccolo e per addormentarti avevi bisogno che io mi sdraiassi accanto a te. Quelli erano i momenti in cui desideravo che il tempo si fermasse: immobile ed immutabile.

Ma quel tempo perfetto dura una manciata di secondi, ti volti indietro a guardare e scopri che quegli anni sono volati nel vento e rivivono solo nei ricordi, cassetti della memoria che al bisogno, il cuore chiama a sé.

E quando poi tutto si avvera, l’incubo che ti ha perseguitata per così tanti anni si materializza , allora sai, di aver vissuto un’illusione.

Tu lo sai quanto il suono del telefono, di sera, mi inquieti, e per questo mi prendi in giro, rammentandomi che le brutte notizie non hanno un orario da osservare.

E’ vero, sai, e quando ho risposto due giorni fa, l’ho fatto con leggerezza, perché una telefonata alle 9 del mattino non può portare con sé il suo carico di dolore.

Stavo per uscire di casa e il telefono ha squillato. Ho pensato: - Non rispondo, altrimenti faccio tardi…-. Ma ho cambiato idea, perché qualche minuto di ritardo non cambierà nulla.

No, non cambierà nulla qualche minuto di ritardo.

Nella testa continuo a sentire l’eco della voce della donna che ha chiamato:

- Famiglia Parsi?-

Ed eccola lì, l’antica ansia, insinuarsi sottile nelle vene sciogliendo il sangue.

- Si…- una risposta che mi ha grattato la gola.

- Lei è la Signora Parsi? –

Non mi ha dato il tempo di rispondere.

- Signora, volevo informarla che Gabriele Parsi ha avuto un incidente, ed ora è ricoverato presso …-

So di aver preso mentalmente nota dell’indirizzo, ma tutto il resto non l’ho sentito. Ho riattaccato, preso le chiavi della macchina e il cellulare e sono uscita di casa, correndo. Laura mi ha detto che non ho chiuso la porta, l’ho lasciata spalancata.

E ho continuato a correre dimenticandomi dei divieti, dei semafori, del traffico piantando l’auto da qualche parte, non saprei dire dove.

Correvo, nel corridoio del pronto soccorso affinché qualcuno mi fermasse e mi dicesse che il mio cuore poteva ricominciare a battere normalmente perché avevo fatto solo un brutto sogno: potevo svegliarmi e riprendermi la solita vita, tutta la mia solita routine.

Ma un’infermiera aveva in mano il tuo giubbotto e il tuo zaino, allora mi sono fermata. Erano le tue cose, le ho guardate come se potessero parlarmi e raccontarmi quello che era successo, come se potessero dirmi dov’eri e quanto male ti avevano fatto.

L’infermiera mi ha guardata e si è avvicinata, non sapeva dirmi molto, solo che ti stavano operando: dovevo solo aspettare. Mi ha accompagnata in una saletta d’attesa invitandomi a sedere e ad attendere. Il chirurgo sarebbe venuto a parlarmi, al termine dell’intervento.

E io mi sono seduta in quella saletta asettica e a farmi compagnia un arredamento spoglio di quattro seggiole di metallo e una poltroncina. Una pianta finta cercava invano di abbellire la stanza.

Ho chiuso gli occhi, cercando di aprire un varco nella memoria, desideravo con tutta me stessa ricordare se ti avevo salutato, se mi avevi raccontato qualcosa dei tuoi impegni per questa giornata. Cercavo disperatamente di bussare alla porta della memoria, per raccogliere ogni sfumatura delle nostre parole, tutto quello che diamo per scontato. Non ci riuscivo, nonostante lo sforzo mi tornava solo il tuo: - Ciao ma’…-.

Quando è arrivato tuo padre ho letto nei suoi occhi il riflesso della nostra paura e inaspettatamente il peso dei suoi 50 anni gli è calato sulle spalle, incurvandole. Ci siamo abbracciati e l’ho sentito fragile, proprio lui, che tra noi due è il più forte.

La sua voce alla ricerca disperata di un controllo, per me, si è unita al mio grido silenzioso:

- Vivrà, deve vivere, ce la farà, è giovane…-

Ci siamo seduti un accanto all’altro, evitando di guardarci, per impedire allo sconforto di prendere il pieno possesso di noi e della nostra impotenza.

Tuo padre non ce la faceva proprio a stare fermo, non è nella sua natura, lo sai. Ciò che mi aveva fatto innamorare di lui, tanti anni prima, era anche questa sua capacità di portare a termine più cose contemporaneamente, ed ora, vederlo prigioniero indifeso del suo dolore, mi fa male.

Ha deciso di andare a prendere Laura: telefonarle a scuola non ci sembrava una buona idea, così avrebbe potuto parlarle, con calma.

Il tempo qui dentro si dilata, ed è scandito dai bip di quelle macchine che ti monitorizzano. Il cuore c’è, batte, lo vedo, e anche i tuoi polmoni, respiri da solo, ma tu dove sei? Torna da me, torna a casa.

Chissà se hai avuto il tempo di capire e quanto ti sei sentito solo. Chissà se anche tu hai visto la luce in fondo al tunnel e qualcuno, magari la nonna, è venuta a prenderti per mano e a mostrarti quanto è bello il Paradiso, angelo mio, e a rassicurarti che il tuo tempo non è ancora venuto, che le Parche non hanno ancora tagliato il tuo filo.

Ti sto accarezzando la gamba, senti la mia mano? Ormai la tua età ti impedisce le dimostrazioni d’affetto, quelle fisiche, ma ci sono volte in cui mi raggiungi alle spalle, con passo felpato, e mi stampi un bacio sulla guancia mormorando: - La mia ma’…- e allora io so che con quel gesto riempi i vuoti di pomeriggi e di serate, passate ad aspettarti con la cena che si raffredda in tavola.

Ma io le voglio tutte quelle arrabbiature, le voglio ancora le notti in cui non riesco a dormire finché non sento la chiave che gira nella serratura della porta d’ingresso, io lo voglio ancora il disordine in cucina dei tuoi spuntini notturni, io lo voglio ancora il caos della tua stanza, io ti voglio ancora figlio mio.

Io non sono pronta a lasciarti andare, non posso seppellirti. Io non le voglio quelle lacrime, non sono pronta per quel dolore che sfilaccia il cuore.

Hai ancora tante cose da fare, tanti posti da vedere e gente da conoscere e io voglio restare in un cantuccio a guardarti diventare uomo e a sentire che avrai sempre meno bisogno di me perché avrai la tua vita da riempire…

Devi combattere Gabriele, la senti la mia determinazione, quella di tuo padre e quella di tua sorella? Siamo qui per te. Non puoi andartene così, torna a casa Gabriele, fammi sentire che ci sei.

Baratterei tutto, la mia vita pur di sentire la tua voce. Ti prego torna a casa.

Un’altra notte sta finendo, tra un po’ verranno a sostituirti la flebo, andrò a prendermi un caffè e a sciacquarmi il viso, perché quando tornerai non voglio che tu legga sul mio viso le tracce di questi giorni. Perché tu tornerai, quando sarai pronto, tornerai a casa

Giomiri 02/01/2011 17:49 1034

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
La riproduzione, anche parziale, senza l'autorizzazione dell'Autore è punita con le sanzioni previste dagli art. 171 e 171-ter della suddetta Legge.

I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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Nota dell'autore:
«E' un racconto di fantasia, per esorcizzare la paura...»

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