Ancora dieci minuti. Ormai non alzo più lo sguardo per vedere l'ora sull'orologio poggiato su un mobile antico, poco lontano, posto proprio al mio lato. Cerco nel buio direttamente il cellulare. Naturalmente, prima m'imbatto in qualche notifica di FB che mi occupa lo schermo. Ci scivolo col dito e la mando via, e m'appare l'ora.
E' ancora presto, ma è tardi allo stesso tempo. Mi compiaccio di questa mia espressione tutta mentale. Mi sovviene quella canzone che amo tanto, "Una lunga storia d'amore" cantata da Gino Paoli, dice nel ritornello "ora è già tardi, ma è presto se tu te ne vai... è troppo tardi ma è tardi se tu ne vai". Prima che i pensieri producano immagini visive, mi dico stop. Certo che vorrei essere altrove, magari chiedendo che ora è, e sentirmi rispondere, è già tardi ma è presto se tu te ne vai.
Fermo le immagini, la mia ora non ha nulla a che fare con la mia elucubrazione.
Mi ripeto, dieci minuti ancora posso stare. Intanto avverto già di sentirmi stanca, più stanca di quando la sera precedente ero andata a mettermi a letto, rimanendo la maggior parte del tempo, immobile, senza cambiare posizione.
Dieci minuti ancora, ma prima che passino i dieci minuti, dò un altro sguardo al cellulare.
Inutile, penso, rimanere ancora, mi alzo. E' una decisione ferma, brusca. Rabbrividisco, ma solo un attimo, quello di quando metti i piedi fuori dal letto, indosso un'altra felpa sul pigiama, e mi metto all'opera.
Si trattasse di me, non mi servirebbe tanto tempo. Il più delle volte evito anche di aprire l'armadio per cercare un indumento diverso, indossare una maglia nuova, scegliere un look diverso.
Metto la prima cosa che trovo dinanzi agli occhi, l'importante che sia pulita e decente. Devo andare in ufficio non a un ricevimento, mi dico. Poi intristisco spingendomi più in là col pensiero, ormai esco solo per andare in ufficio o a fare spese...
Il tempo guadagnato mi servirà, comunque, per gestire meglio le altre attività.
Mia madre, ad esempio, non nel senso che mia madre sia un'attività o un impegno e neppure un sacrificio o una pena da scontare. Mia madre è mia madre, la persona alla quale non dovrà mancare nulla fino a quando resterà con me e fino a quando io stessa vivrò.
Mia madre è le mie radici, è la mia forza, è il mio coraggio, è lo stimolo ad andare avanti, mia madre ride alle mie battute, schiette, a volte anche piccanti, ma lei ride ed è una piacevole sorpresa quando lo fa.
Spesso è silenziosa, io la invito a parlare, ma lei si posa sui suoi pensieri o preoccupazioni, sopporta I suoi dolori artritici senza lamentarsi, ma le si legge in viso che soffre. Non vorrebbe dare fastidio a nessuno, sempre così attiva fino a qualche mese fa, ora costretta a stare ferma, mi guarda e dice: sono diventata un peso. Ed io che le rispondo: mamma tu non sarai mai un peso! Io a sorridere, sempre, con la mia pazienza e la mia dedizione, passando da una cosa all'altra senza fermarmi, organizzandomi mentalmente e con il dovuto razionale criterio.
Mia madre non deve leggere la stanchezza sul mio viso, la malinconia che mi coglie talvolta all'improvviso, una sorta di disperazione, conseguente a quel senso d'impotenza che sento crescere in me, poiché m'accorgo che tutto è mutato, le priorità, gli optional, tutto è mutato, compreso il mio ruolo nella famiglia.
Il tempo che noi misuriamo per tante cose, il tempo fatto di attese e speranze, di eventi belli e brutti, di desideri e paure, il tempo passa, ti lascia i segni addosso, sul corpo e sull'anima. Sono unghiate a volte, altre, graffi, sfioramenti o profonde incisioni, comunque segni, personali, unici, diversi da quelli che trovi impressi su di un'altra persona. Una specie di topografia, insomma. Sorrido io stessa al paragone.
Ecco che dieci minuti sono preziosi. Una volta alzata dal letto, so che non mi fermerò fino a sera, fino a quando non avrò svolto l'ultimo compito, necessario, non rinviabile della giornata, ripetendo le stesse azioni del giorno precedente, compiendone delle nuove, alle prese con i piccoli problemi che definisco di normale amministrazione e affrontando gli imprevisti sempre numerosi.
Poi mi fermerò e seppure alla mente dovesse affiorare qualche dimenticanza, non potrei più fare niente. A quel punto dovrei rimandare solo al giorno appresso.
Metto a tacere il mio mal di schiena, o qualche doloretto alle spalle, cose di poco conto. Passerà di certo e domani sarò di nuovo in forma, con un abbozzo di sorriso, la rissa dei pensieri nella mente, i miei silenzi mentre mi organizzo le ore, le tante cose da fare, e il tempo che passa a volte lento, altre volte, velocemente, scivolando su un altro giorno, il mio giorno qualunque.