Amava il jazz sopra ogni cosa, amava il suo sax soprano così come la sua famiglia, e amava vivere, perché per lui “ la musica e la vita erano una questione di stile”
I primi anni sessanta New York era l’ epicentro del mondo dove tutto accadeva e tutto era possibile.
Dustin Fletcher vagabondava per i locali della cinquantaduesima strada alla ricerca della consacrazione che prima o poi sarebbe giunta.
Era apprezzato per il suo stile innovativo e coinvolgente. Diversi critici si erano già accorti di quel giovane che sapeva proporre sonorità che preludevano al superamento del bebop allora in voga.
Dustin amava il jazz, il suo sax soprano ma soprattutto amava Miles.
Una sera, al termine di un’ esibizione, il proprietario di nome Mark, gli disse che Davis sarebbe stato presente il giorno dopo ed egli stesso gli aveva decantato le qualità di Dustin.
Quella notte non dormì. Per non disturbare sua moglie Sara e il piccolo Eric camminò da Harlem fino a Riverside Park e suonò finché non giunse l’ alba.
La sera del concerto Dustin suonò come mai aveva suonato non distogliendo neppure per un istante gli occhi dall’ ingresso. Intorno a mezzanotte Miles entrò seguito da uno stuolo di accompagnatori. Prese posto voltando le spalle al palco e ordinò champagne. Parlò per tutta la durata dell’ esibizione con la sua compagnia come incurante di quanto lo circondava.
Al termine della session fu un trionfo di acclamazioni, tutti si alzarono in piedi a tributare i loro omaggi al giovane sassofonista.
Mark lo abbracciò, lo prese con sé e lo condusse verso Miles.
Il “ Principe delle tenebre” ascoltò distrattamente gli elogi che Mark esponeva di Dustin, quindi si volse improvvisamente e disse: “É troppo bianco per fare del buon jazz!”
Fu allora che Dustin Fletcher morì per consacrarsi non più al jazz ma al risentimento, al rancore per chi era rivestito di quella pelle nera che a lui non era stata concessa e alla perdizione.
Non ritornò più in quella casa di Harlem che aveva tanto amato, non volle rivedere la moglie Sara né il piccolo Eric, depositari di un privilegio che gli era stato negato e incominciò a vagare senza più una meta.
Trascorse le notti sulle panchine di Central Park, di Riverside Park, dormì nei gelidi inverni newyorkesi riparato da giacigli improvvisati con cartoni negli antri di Brooklyn e del Queens.
Si cibava dei prelibati rifiuti della gente di Manhattan e delle misere elemosine implorate senza dignità e gli anni trascorsero inesorabilmente e furono tanti.
Un freddo mattino del 1985 scorse un riflesso dorato tra i cespugli di Central Park. Si avvicinò timidamente, allungò le mani verso quell’ oggetto che gli fece vibrare tutto il corpo, era un sax soprano depositato lì da un destino misterioso.
Si allontanò in tutta fretta, spaventato. Giunto in uno spiazzo isolato, avvicinò l’ ancia alla bocca, emise poche sonorità e d’ improvviso fu nuovamente jazz.
Dustin, o quello che ne rimaneva, riprese a suonare e a incantare le poche persone che s’ attorniavano in quel teatro posto tra due olmi e un prato consumato.
Passò dell’ altro tempo e sempre più gente accorreva in Central Park per ascoltare il jazz improvvisato di un barbone malridotto.
E c’ erano passanti, perditempo, sfaccendati, e poi giornalisti, critici musicali, musicisti…
Ogni domenica mattina, al riparo di un ontano, Eric Bradley, il famoso trombettista nero, camuffato con occhiali scuri e cappello annusava ogni sua nota, finché un giorno si avvicinò a Dustin con in mano il suo strumento.
Chiese se potevano suonare insieme.
Eric si tolse gli occhiali e il cappello. I due uomini si osservarono a lungo senza dirsi niente.
Dustin accennò un sorriso, avvicinò l’ ancia alla bocca e partì con un Si bemolle ad ispirare il tema, Eric, emozionato come un principiante, attese un po’, quindi si sovrappose in controcanto.
Suonarono per un tempo infinito, suonarono come mai avevano suonato. La gente accorreva da tutti gli angoli di Central Park e a detta dei presenti mai performance fu più emozionante.
Al termine dell’ esibizione tra scrosci di applausi Eric si avvicinò a Dustin per dirgli: “ Per essere un bianco, suoni meglio di qualunque nero abbia mai incontrato, anche di Miles, papà”