Napoli (ciò che ne resta), 11 agosto 2065
Gentilissimi Redattori di "Scrivere. info", approfittando del fatto che questo sito è ancora vivo, e più vegeto che mai, a sessant'anni dalla sua creazione, e chiarendo che non è colpa mia se ho lo stesso nome e lo stesso cognome di un autore che in esso pubblicava mezzo secolo fa (sono un suo lontano parente), sento il dovere di fare conoscere ai lettori le vicissitudini che portarono questa città un tempo tra le più grandi del mondo a rimpicciolirsi rapidissimamente, a ritornare alle dimensioni che aveva nel Duecento.
Il professore Antonino Palumbo, nel suo libro "Il Vesuvio, i Campi Flegrei e i Napoletani", ed. Liguori, Napoli, 2003, l'aveva prevista. A pagina 78 la dava per probabile, dopo lunghi e complicati calcoli matematici che qui non saprei riassumere, nel 2030, ma l'eruzione volle avere la bontà di aspettare un po', ed avvenne esattamente trent'anni fa, l'11 agosto del 2035 (iniziò in tale data) .
Tutte le (poche) persone che riflettevano sul problema (anche il professor Palumbo) avevano previsto che l'eruzione, come era sempre successo nel passato, si sarebbe diretta verso sud (a Pompei e giù di lì) o verso est (come 3500 anni fa circa, quando il vulcano fece danni soprattutto ad Avellino, in un periodo in cui Avellino non esisteva ancora), ma i fenomeni della natura sono capricciosi, e trent'anni fa, forse anche a causa di un fortissimo vento che spirava da est a ovest, i flussi piroclastici, le nubi ardenti, le colate di fango e pure le lave presero la direzione nord- ovest, investendo non soltanto i tre quartieri di Napoli che erano già stati inclusi nella "zona rossa" (Barra, San Giovanni a Teduccio e Ponticelli), ma l'intero centro storico. I terremoti e soprattutto i maremoti conseguenti fecero il resto, innalzando il mare e riducendo velocemente il cuore della città in un immenso cumulo di rovine non più abitabili né edificabili.
Si dovettero contare - ahimé! - decine di migliaia di morti, tutto sommato non tantissimi, perché durante il primo terzo del XXI secolo il flusso migratorio (buono e cattivo) dalla città, non in grado di offrire un decente domani ai suoi abitanti, era continuato ed aumentato, verso la Germania, l'Inghilterra, la Francia, perfino la Spagna, e soprattutto verso il nord dell'Italia (una città emiliana, Modena, era stata ribattezzata "Modenapoli" per la massiccia presenza di immigrati napoletani) .
Ora Napoli è ridotta a una città tutta raccolta sull'altura del Vomero, a una cttà di soli 40000 abitanti, come nel Duecento ai tempi del grande Imperatore Federico Secondo, che tanto l'amava, essendone però poco e male ricambiato. I Napoletani superstiti si sono resi conto che quella sarebbe dovuta rimanere per sempre la dimensione della loro città, circondata da luoghi bellissimi, ma troppo pericolosi. Il suo smisurato ingrandimento fu un brutto scherzo della storia, fu come, anziché ammirarlo soltanto, mangiare un fungo velenoso (e si sa che i funghi velenosi sono spesso anche i più belli...)
Ora che siamo in pochi, e tutti concentrati qui in alto, vi assicuro che la vita è molto più sicura, piacevole e industriosa, ora che siamo costretti a restare quassù perché la Napoli storica è scomparsa, ora che siamo obbligati ad attenerci al consiglio che cinquant'anni fa Antonio Pascale, in "Non scendete a Napoli", aveva ripetuto più volte in ogni capitoletto del suo libro: "Io vi suggerirei la terrazza di Castel Sant'Elmo. Da quell'altezza si vede tutto. Iniziare da Castel Sant'Elmo e contemporaneamente finire il viaggio a Castel Sant'Elmo. E' un itinerario semplice e poco dispendioso: il massimo con il minimo sforzo. Siete sopra la terrazza di Castel Sant'Elmo, in un altrove. Godetevi il momento, poi andate via. "
Ringrazio la Redazione per avere gentilmente dato ospitalità a questa mia testimonianza.
Distinti saluti,
Antonio Terracciano