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Tra le tante reminiscenze che affiorano talvolta quando verso sera me ne sto davanti alla finestra della mia vecchia casa a guardare quel calare del sole in mezzo al mare ce n'è una che mi fa sorridere ma che allo stesso tempo mi fa venire un po' di nostalgia del tempo andato.
Ricordo ancora il vecchio Fulvio con quel suo viso scavato, naso affilato e quegli occhietti grifagni sempre in movimento come quelli di un rapace, avvolto nel suo vestitino grigio, composto da una giacchetta a doppio petto ed un pantalone sempre stirati di fresco. Donna Gianna lo teneva sempre agghindato come fosse un giovanotto, ed, anche se il vestito si vedeva che non era proprio nuovo, sapeva comunque sempre di pulito e di lavanda. Una volta a don Luigi, il gestore della sala giochi dove lui soleva passare qualche ora del mattino prima di recarsi a Ballarò, il mercato dell'omonimo rione di Palermo, che gli aveva chiesto come riuscisse ad avere sempre addosso quel profumo, lui aveva risposto dicendo che era una mania di sua nipote Gianna... e nulla più. A tal proposito si sapeva che lui non era per niente lo zio di donna Gianna e neanche dei suoi 4 figli, era stato il covivente di sua madre e che, alla sua morte, si diceva che, la figlia Gianna si fosse trasferita nel letto della madre prendendone il posto a tutti gli effetti. Successivamente, dopo qualche anno di questo tran tran s'era sposata con un contadino del vicino paese di Santa Margherita, per tappare la bocca delle malelingue che in paese cominciavano a parlare troppo. Il marito di donna Gianna, don Calogero, uomo di poche parole e sempre dedito al suo lavoro che lo teneva tutta la settimana inchiodato alla sua masseria un po' per le bestie a cui bisognava accudire ed un po' per i lavori che si dovevano fare sulle terre, tornava ogni sabato sera e ripartiva al lunedì mattina presto prima che sorgesse il sole.
Donna Gianna, come se fosse un rituale, ogni sabato sera gli faceva trovare, oltre al pane fresco ed ancora caldo, la biancheria pulita e stirata, pronta nel canestro di vimini, intrecciato da suo marito, e metteva via la roba sporca che lui aveva portato dalla masseria. Poi, abbracciandolo e sorridendo, gli chiedeva cosa avesse portato di bello, e lui aprendo le bisacce, che aveva scaricate dal carretto, le mostrava i prodotti più belli che aveva raccolto.
Trascorrevano così la serata, come se fossero la coppia più affiatata e felice del mondo, chiacchierando e ridendo.
Da quel matrimonio erano nati quattro figli di cui tre erano probabilmente attribuibili a don Calogero ma la quarta assomigliava stranamente al vecchio Fulvio ed erano ricominciati i mormorii che sotto sotto facevano il giro del paese tanto che Donna Gianna con la scusa dell'avvenire dei figli si era trasferita a Palermo e, per contribuire alle spese, teneva noi studenti a pensione.
Noi studenti si soleva, di tanto in tanto, fare un giro insieme al vecchio Fulvio e quando si entrava in un bar mentre noi ordinavamo un'aranciata o una gassosa o una granita lui prendeva sempre il suo calicino, che era una mistura composta da un dito di gassosa ed il resto vino nero.
Un giorno, incuriosito da ciò, mi venne da chiedergli se avesse mai bevuto acqua in vita sua e lui, con un tono grave e con voce solenne, disse:
Si! ... tre volte... la prima a Brescia e mi è venuta la pleurite... capisci? L'acqua alla spalla! La seconda ad Ancona perchè dopo una caduta ed un ginocchio sbucciato mi hanno fatto bere dell'acqua e mi è venuta la sinovite ... ti rendi conto?... l'acqua al ginocchio! La terza a Trapani dov'ero prigioniero degli americani e, costretto a bere acqua in un fosso per la sete, mi è venuta l'epatite che per poco non m'ha portato dritto dal Creatore. Ed allora, dopo quest'incresciosi avvenimenti, ho deciso che l'acqua non era fatta per me.
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