Le domande di Chiara non erano mai banali, ma in quella occasione mi mise davvero in difficoltà.
Mi colse impreparato. Mi spiazzò come non era mai successo prima.
Indugiai a lungo prima di parlare, mi guardai intorno guadagnando tempo e con un filo di imbarazzo cercai accuratamente le parole più adatte, ma in quel momento interminabile non me ne venivano.
I suoi occhi chiari mi fissavano, aspettavano trepidanti una mia risposta.
« Allora Chiara mi hai … chiesto se …»
« Se i musulmani sono quelli cattivi che tagliano le teste?» rispose prontamente Chiara.
A sentir con quanta sicurezza pronunciava la domanda, pensai che, la piccola dai lunghi capelli biondi e lisci come seta, avesse sentito parlare di queste storie, magari a tavola, ascoltando interessata i commenti fatti dai genitori sui tragici avvenimenti accaduti qualche giorno prima.
Forse aveva visto le immagini del boia vestito di nero con il coltello in mano mentre cambiava canale da un cartone animato a l’ altro e ora, confusa su quell'uomo misterioso, aspettava da me un chiarimento che mettesse ordine nei suoi pensieri.
Avrei voluto scegliere con calma le parole, ma lo sguardo fisso e urgente di Chiara mi spingeva a fare in fretta, mi agitava a tal punto da non riuscire a formulare una risposta semplice e immediata degna della situazione.
« E … diciamo che … i musulmani sono cattivi»; e cercai rapidamente di andare oltre sulla pagina del libro;
« quindi tagliano le teste vero maestro?» disse Chiara insoddisfatta della mia risposta;
« E … allora … diciamo che …»
La fortuna venne in mio soccorso e proprio in quell'istante il suono della campanella rompeva il silenzio nella classe.
La lezione era finita e i bambini, tra lo schiamazzo generale, raccoglievano le loro cose: c’ era chi metteva i libri nello zaino, chi, alzandosi di scatto, graffiava il pavimento con la sedia, chi invece, disinteressato per tutta la lezione, aveva anzitempo sistemato le sue cose, e adesso, gaudente come non lo era stato per tutta la mattina, s’ apprestava a guadagnar l’ uscita.
Il suono della campanella fu un gran bel colpo di fortuna: non sapevo affatto come venirne a capo. Non potevo certo confermare, soprattutto in una comunità come la nostra dove gli immigrati sono radicati come gli alberi al terreno, che i musulmani tagliano le teste. Perlopiù non potevo confermarlo a Chiara, bambina di soli sette anni e con lei, a tutti i suoi compagni di classe. Qualcuno poteva rimanerci impressionato. Non volevo affatto suscitare, nei miei cari alunni, alcuna sensazione di terrore.
I bambini erano quasi tutti usciti, lo schiamazzo lentamente lasciava spazio ad un silenzio sempre più muto. Raccoglievo lentamente le mie cose. Misi i libri nella cartellina trasparente, verificai che sul registro di classe fosse tutto a posto, lo chiusi e lo misi nel cassetto come facevo ogni giorno.
Prelevai la giacca che avevo appoggiato sulla sedia e la indossai pronto per uscire. Nella classe ormai vuota, i banchi vicino alla finestra erano illuminati da un fascio di luce raggiante pieno di acari sospesi. Sul primo banco, quello più vicino alla cattedra, dentro un cuoricino rosso c’ era scritto: “ Luca e Marta amici x sempre” Sorrisi.
Presi la cartellina con i libri sulla cattedra, e pensando all'amicizia che legava i miei due piccoli alunni, mi diressi verso l’ uscita.
Sulla porta c’ era un bambino immobile con la cartella sulle spalle e lo sguardo rivolto sul pavimento.
Aveva i capelli neri e fitti, indossava un giubbino rosso scolorito dal tempo e una tuta tanto sciupata che sulle ginocchia il tessuto cominciava a sfilacciarsi formando molle di filo colorato.
Era Kabir. Lo riconobbi subito perché era l’ unico bambino della mia classe ad avere le scarpe da ginnastica consumate sulla punta fino a scorgere il colore dei calzini.
« Kabir sei ancora in classe?» dissi sorridendo;
Non mosse un solo muscolo, continuava a fissare il pavimento.
Non capivo. Mi avvicinai a lui, appoggiai la cartellina su un banco lì vicino, mi tirai su i pantaloni e mi piegai sulle ginocchia.
« Kabir, la lezione è finita puoi andare a casa» dissi con tono pacato.
Non rispose. Pensai fosse arrabbiato con Carlo, il suo compagno di banco che spesso si prendeva gioco di lui.
« Kabir sei arrabbiato vero?»
Kabir alzò il capo, i suoi grandi occhi neri erano umidi. Poi, con la voce che tremava mi disse:
« Io sono musulmano», mentre lo diceva una lacrima le rigava il viso.
« lo so caro»;
« ma non sono cattivo … non sono cattivo», ripeteva lasciandosi andare in un pianto copioso.
Lo abbracciai. Mi si strinse il cuore.