Giancarlo Zanotti (Tony Cirullo)
L’ho conosciuto quando poteva avere 14-15 anni e faceva l’apprendista fornaio. Anche lui, come altri più anziani della sua specie, il sabato quando era giorno di paga non vedeva l’ora di giocare a poker per lasciarci gran parte dello stipendio. Veniva a casa di Livio ancora tutto infarinato e per noi tutti era una manna: non solo non sapeva giocare ma era anche sfortunato. Ma Cirullo, in arte “Tony Cirullo” va ricordato per il suo momento di grande notorietà come cantante di rock al Sombrero; infatti, il complessino che teneva spettacoli pomeridiani e serali al caffè concerto lo ingaggiò per tutta l’estate. Cantava ogni volta le canzoni in voga a quel tempo, fra cui la notissima “Coccinella”, lanciata dal cantante Ghigo nel 1959 al “Musichiere”. Quando cantava, ballava e si contorceva come tutti i cantanti rock, in verità era molto intonato e sapeva stare a tempo con l’orchestra. Dato che Cirullo guadagnava parecchi soldini (gli davano 2.000 lire il giorno: ci potevi comprare, servito al tavolo, pizza e birra per 8 persone), io, Livio e il Dottor Lais eravamo spesso in sua compagnia. Ricordo che un pomeriggio verso le 17 aveva appena spiovuto e lui si stava esibendo sul palco. Quando cantava “Coccinella” s’arrampicava, alla Tarzan, fino in cima ad un palo di ferro di un lampione in disuso. In cima al palo c’erano i fili elettrici coperti da nastro isolante ma come sappiamo ferro e acqua sono buoni conduttori. Cirullo stava cantando arrampicandosi lungo quel pilastro, quando nel pieno dell’acuto, che andava ruggito, prese la scossa e bestemmiò la Madonna con tutti i Santi del Paradiso! Gli spettatori rimasero per un istante interdetti, poi capirono cos’era successo e risero applaudendo l’eroe con molto vigore. Il successo gli aveva in qualche modo dato alla testa e siccome a donne eravamo tutti scarsini (tranne Pierino), e lui in particolare non aveva mai avuto una ragazza, nemmeno una straniera, millantò d’essersi scopato persino la... (omissis!). Quella stessa estate, cavalcando l’onda del successo, ebbe buon gioco con una milanesina che si era innamorata del personaggio e lo seguiva ovunque lui andasse. Noi gli chiedevamo notizie, e, Cirullo, per non esser da meno delle nostre balle, disse che lei per lui era solo un trastullo ed aveva anche approfittato dell’occasione per farsi pagare da un vecchio guardone che spiava dal buco della serratura mentre loro facevano l’amore a casa sua. Qualche sera più tardi ospitai l’intera compagnia (Cirullo e la ragazza, Livio, il Dottor Lais e Pierino) nel giardino della mia villa-pensione a bere qualcosa prima di ritirarci. Cirullo era pieno di sé e per il fatto d’avere al suo fianco una ragazza posava, trattandoci con sufficienza. Livio ed io ci scambiammo un segno d’intesa e proponemmo il “gioco della verità” che da quando era uscito il film “Peccatori in blue jeans” era molto in voga fra i giovani. (1) Tirammo fuori tutte le balle che ci aveva raccontato dicendo: “E’ vero che…?”, Cirullo rimase impietrito rispondendo a monosillabi con voce flebile, la sua donna diventò di cera in volto. Interrompemmo quel gioco dall’atmosfera pesante ma troppo tardi, la ragazza cadde in deliquio epilettico. Rimanemmo tutti sorpresi e spaventati, mentre in soccorso giunse Elisa (cugina di mio padre e infermiera) che ci raccomandò di metterle un cuscino sotto la testa per impedirle di continuare a sbatterla a terra con violenza, come stava facendo, e di metterle un fazzoletto fra i denti affinché non si mordesse la lingua, quindi attendere che le passasse la crisi. Di lì a poco tutto finì ma nessuno di noi era fiero per quanto aveva fatto e detto.
Riché li morté
Credo che sua madre fosse riminese vedova d’un romano e non sono nemmeno certo che il nome vero fosse Enrico. Quel che è certo è che si prese un bel diretto in un occhio da Duilio, non so per cosa, credo fosse per il gioco ma ricordo che portò il pestone per un bel pezzo. Senz’arte, né parte, sembrava vivesse d’espedienti e parlava in romanesco. Ricordo che una volta disse d’aver l’uretrite e, mentre giocava a carte con me, mi graffiò con le sue unghie fetide il dorso della mano, facendola sanguinare. Di lì a poco, non so come e perché, anch’io presi l’uretrite e ci volle del bello e del buono per guarirla. Tuttavia, non sono mai riuscito a capacitarmi come fossi rimasto contagiato, perché a quanto pare la malattia non è trasmissibile nel citato modo, anche se il mio organismo era molto predisposto a contrarre malattie con una certa facilità. Sta di fatto che dai medici ai miei genitori, tutti cedettero che avessi avuto rapporti sessuali magari anche non molto ortodossi… ma questo non mi risultava, per cui… “cornuto e mazziato” come si vuol dire in questi casi.
Luciano Zaghini (il Nero)
Di carnagione scura, bassa statura e smilzo, il Nero era un ragazzo molto tranquillo, ma aveva due mani che sembravano una morsa, dato il lavoro di riparatore meccanico che svolgeva. Se ne stava per ore in silenzio col braccio appoggiato sul bancone vicino alla cassa, poi quando di turno c’era Lidia scambiava due chiacchiere con lei. Credo se ne fosse segretamente innamorato, come un altro paio di ragazzi insieme a lui. Un giorno entrò uno zingaro, riccioluto, sporco e ben piazzato. Dopo che con le mani nere ebbe toccato tutte le paste in vista e bevuto un paio di grappini, insisteva al banco con fare fra il prepotente e il birro, infastidendo Lidia che lo invitò ad uscire. Il giovanotto s’era fatto irascibile e violento e allungava le braccia oltre il banco per toccare Lidia che lo guardava con disgusto e timore. Anche Luciano ch’era proprio lì vicino alla cassa lo invitò ad uscire, questi per tutta risposta s’impettì e fece per alzare le mani su di lui. Il Nero lo prese per il bavero del giaccone con una mano mentre con l’altra spalancò la porta d’ingresso, poi a due mani lo alzò letteralmente da terra e lo scaraventò di schiena sul selciato. Lo zingaro nel rialzarsi sembrava volesse ancor timidamente duellare ma Luciano lo ributtò a terra, gli mise un piede su petto e alzando il pugno serrato gli disse che l’avrebbe piantato come un chiodo. Lo zingaro si rialzò pigramente e sgattaiolò via imprecando. Il Nero divenne, così, l’uomo del giorno e inorgoglito non fece altro che raccontare e mimare per settimane l’accaduto, fra l’ammirazione e il rispetto generale.
Titti ed Elia Corbelli
Come non ricordare le due sorelle, uniche ragazze frequentatrici del Bar Diana? Titti, la più giovane, usava un linguaggio che avrebbe fatto arrossire il più “sboccacciato” dei marinai. Con Elia, la più moderata, flirtai per un paio di settimane, forse un mese. In quel periodo, mentre l’aspettavo al Bar conversavo con Lidia che mi parlò molto di sé, dei suoi difficili rapporti col marito, raccontandomi della terribile malattia del figlio e che si fosse avverato ciò che le dicevano i dottori, non avrebbe voluto sopravvivergli.
Durante il breve flirt con Elia che finì per caso come per caso cominciò, ogni volta che tentavo d’approfondire per capire di quale spessore sarebbe diventato il nostro rapporto, lei mi canticchiava il ritornello di una canzone di Tenco, allora molto in voga: “Mi sono innamorata di te, perché non avevo niente da fare…”.
Mitzi
La consideravo come il genio folle Salvador Dalì. La prima volta che la vidi fu in sella ad un motorino, scollatissima, truccata di tutto punto e labbra vermiglie. Andava a prendere il fratello Eddy che frequentava le elementari dai salesiani quando io ero alle medie. Ricordo gli sguardi scandalizzati ed attoniti dei preti. Diventammo presto amici. Mitzi era un tipo molto eclettico che si dilettava di pittura e seguiva un poco la politica ma più da “pasionaria” che da competente. Spesso fui ospite a casa sua e buon amico anche della sorella Anna. L’amicizia durò a lungo con Mitzi e un giorno la presentai a mia madre. La mamma nel vederla così elegante e carina mi disse che le piaceva molto e pensava fosse una maestrina. L’amicizia stretta durò fino a quando non fui distratto dall’attraente intelligenza di Letizia, per poi riprenderla a singhiozzo nel tempo. Mitzi ha sempre avuto in testa e parlato di mille e una cosa contemporaneamente ed ho sempre fatto una dannata fatica a capire dove volesse andare a parare. Ultimamente le ho fatto rimarcare questa condizione e lei mi ha risposto che tutti i geni sono un poco “pazzi e schizati”. In conclusione, Mitzi è stata un grande personaggio degli anni ’60 e come il Bar Diana era conosciuta da tutti!
Piero Mussoni (Muco Muconi)
Solo Franco Pierleoni si permetteva di chiamarlo per soprannome, in breve Muco. Piero faceva il pollastraro nell’azienda di famiglia e tutto il giorno era impegnato a cucinare polli arrosto, fra maghetti, fegatini e rigaglie, ma la sera si vestiva in giacca e cravatta di tutto punto ed andava ad imbarcare le tedesche alla “Lumaca” (noto dancing ove ora sorge il Mac Donald sul lungomare). Aveva molto successo poiché era l’unico che, dismessi i bluejeans, appariva di grande affidamento. Esibiva le ragazze alla Sala Giochi mentre noi eravamo tutti scompagnati attorno al jukebox. Per questo suo fare ebbe anche gli onori della cronaca con un articolo dedicatogli sul “Resto del Carlino” in cui si raccontava che di giorno aveva a che fare con i polli nostrani e di notte con le pollastre straniere.
Nota (1) Un film di Marcel Carné del 1958 con Pascale Petit, Jacques Charrier, Laurent Terzieff, Roland Lesaffre.