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Avevo un amico, Matteo, bravo ragazzo, in gamba, volenteroso, che aveva però alle spalle una situazione familiare abbastanza disastrosa: la madre era un’alcolizzata che, per pagarsi le sedute in una di quelle associazioni falso-no-profit di alcolisti anonimi, vendeva il suo corpo sulla statale quando il marito faceva gli straordinari in fabbrica; il padre, appunto, era un operaio che lavorava in una piccola fabbrica di scatole di latta e faceva spesso gli straordinari per pagare gli studi al figlio. Lui, Matteo, andava bene a scuola, almeno fino alla terza media, anno in cui la sua vita cambiò. La ditta dove lavorava il padre fallì così il vecchio genitore perse il lavoro: lo trovarono impiccato in casa, qualche giorno dopo. In verità fu proprio Matteo a trovarlo. Mi ripeteva spesso che quando lo vide appeso penzolante al lampadario del soggiorno notò che indossava delle scarpe nuove, fiammanti, come se volesse andarsene da signore, quale e non era mai stato. La madre invece, era sempre stata alcolizzata, ma smise di prostituirsi per pagarsi le sedute, continuò invece a farlo per campare – e per pagarsi fiumi di alcool, da cui non era riuscita a disintossicarsi – e per far campare il figlio. Matteo rimase traumatizzato, come si può ben immaginare: iniziò a non studiare più come faceva un tempo e crebbe con l’ossessione di perdere il lavoro. Un’ossessione di quelle che invadono le tue giornate e pregiudicano ogni tua scelta, anzi, annullano ogni scelta, giusta o sbagliata che sia. Andava dicendo in giro che avrebbe voluto lavorare in una fabbrica d’armi, l’unica ditta che non avrebbe mai potuto fallire – diceva – nemmeno in tempo di guerra. E non si poteva nemmeno dargli torto, quando andava farneticando che voleva lasciare tutto e andare a cercare lavoro in provincia di Brescia, dove c’era la Beretta, la fabbrica d’armi più in vista del nostro paese (Beretta sono le pistole delle nostre forze dell’ordine, Beretta sono i fucili che impiegano i nostri militari in missioni all’estero) e non solo nel nostro paese tant’è che le sue pistole sono usate come arma d’ordinanza da moltissime polizie di tutto il mondo. Questa cultura bellica, come si può capire, deriva sempre dai farneticamenti di Matteo. Vaneggiava e vagheggiava questo suo futuro lavoro alla fabbrica d’armi, ma tanto s’impegnò, che riuscì finalmente ad avere quel posto tanto agognato: un lavoro di fabbrica, tutto sommato, come suo padre, con la differenza che quella fabbrica non avrebbe potuto mai fallire, nemmeno in tempo di guerra e – secondo il suo pensiero forse anche un po’ schizofrenico – lui non avrebbe mai potuto fare la fine del padre. Peccato che un paio di anni dopo – ironia della sorte – si suicidò anche Matteo, quando venne a sapere che la fidanzata lo tradiva: si sparò in testa con una Beretta 92 calibro 9, o almeno così trovai scritto sul giornale, in un trafiletto in quarta pagina, una notizia, fra le tante, una notizia macchiata di sangue rosso, diventato inchiostro nero per cronaca nera. Matteo fece così la fine del padre, non per colpa del lavoro, ma per colpa di una donna. Nella vita, non puoi prevedere mai nulla, e per quanto tu ti possa sforzare per raggiungere i tuoi obiettivi, le sorprese, quelle brutte, arrivano sempre. E questa non è una morale, è una considerazione, un commento mio, un po’ come si fa nei blog su internet, ad una storiella qualsiasi scritta da un adolescente con molti brufoli e poco cervello. |
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.
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«E' solo un racconto d'invenzione... anche se racconta una realtà che non è propriamente un'invenzione.» |
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Cioè: il fato batte la razionalità. (Antonio Terracciano)
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