Alcune parole dialettali sono in sostanza intraducibili in italiano ma racchiudono, nella loro fonetica, l’ inspiegabile sunto di un condensato di misteriosi significati.
La storia, che mi accingo a raccontare, potrebbe essere riassunta in una sola parola, appunto, inesprimibile: la chùatë.
Il termine amardolcese, che risale a tempi remoti, potrebbe essere sommariamente tradotto in: organo maschile di grande dimensione.
L’ energia elettrica veniva regolarmente somministrata agli utenti dalla famigerata Enel, ma all’ epoca dei fatti c’erano spesso dei blackout che duravano anche delle ore, prima che gli operai preposti a tale scopo, ripristinassero la linea elettrica.
La vicenda si svolse proprio durante uno dei tanti blackout elettrici, che costellavano la vita quotidiana degli amardolcesi.
Francesco, studente universitario anarcoide, aspettò pazientemente la notte di San Lorenzo per ammirare le stelle cadenti, senza sapere che sarebbe stato testimone di un fatto che sarebbe rimasto per sempre negli annali di questo piccolo paese di montagna.
Era una notte molto calda e il vento soffiava rumorosamente sulle case diroccate del paese vecchio, producendo un sibilo simile a quello prodotto da una mosca imprigionata in un bicchiere rovesciato.
Francesco salì agilmente per la strada acciottolata, che porta alla sommità del paese vecchio, quando si verificò l’ ennesimo blackout.
Imperturbabile, pur rischiando di cadere, essendo il paese vecchio uno sperone proiettato nel vuoto, decise di continuare a salire.
Aveva percorso metà strada, quando intravide una luce sospetta, all’ interno della sede del W. W.F. dove, spesso, andava con gli altri giovani del paese a discutere di ecologia, a giocare a carte o a parlare di politica.
La casa diroccata era stata ceduta gratuitamente a un piccolo gruppo di ecologisti incalliti da un eccentrico amardolcese emigrato in America.
Decise di entrare nella casetta, che era posizionata sull’ orlo di un precipizio, non dalla porta d’ ingresso che era stata chiusa a chiave dall’ interno, ma da una stanza sotterranea, conosciuta soltanto da coloro che frequentavano la “Tana del lupo marsicano”.
Francesco s’ intrufolò come una lucertola all’ interno dell’ edificio e si avvicinò silenziosamente alla stanza da dove provenivano i labili bagliori di luce, di una candela, quando udì dei rumori sommessi.
Strisciò silenziosamente, come un soldato in perlustrazione, fino al locale, dove erano esposti serpenti, rane e ramarri in barattoli di vetro.
Una coppia stava facendo l’ amore, a qualche metro da Francesco e lui intravedeva la scena erotica, attraverso le ombre proiettate dalla candela, sulle pareti di gesso della stanza.
Il giovane rimase immobile per la sorpresa e guardò la scena con morboso interesse: l’ ombra, che sembrava appartenere a un uomo di media corporatura, si muoveva ritmicamente su un’ altra che sembrava più esile.
La cosa che sconvolse l’ universitario non fu l’ amplesso in sé per sé, poiché faceva spesso l’ amore con la sua ragazza, ma fu l’ imponenza della chù atë dell’ uomo.
Forse, era il gioco delle ombre che la ingigantiva, pensò Francesco di primo acchito, poi nella sua mente si accavallarono i pensieri più disparati, ma quello che lo ossessionò con prepotenza era la seguente: a chi poteva appartenere un fallo così ingombrante?
Chiuse gli occhi per concentrarsi, ma per quanto lui ne sapesse, non c’ era nessuno al paese che avesse quest’ agognata nomea. Non sarebbe passato inosservato un uomo con tale caratteristica, ad Amardolce, dove il pettegolezzo, soprattutto quello legato alla sfera sessuale, la faceva da padrone.
Francesco riaprì improvvisamente gli occhi e fu in quel preciso momento che si rese conto che era tornata la luce e vide finalmente l’ uomo che lo aveva incuriosito: era Marco, un neolaureato in medicina, alto poco più di un metro e cinquanta.
Egli rimase così sconvolto dall’ inaspettata scoperta che non si soffermò neppure a riconoscere quella donna fortunata, che si offriva ai suoi occhi con il suo seno abbondante e le sue labbra sensuali che si muovevano ritmicamente all’ unisono con il soffio del vento.
Nessuno s’ interessò al nome della donna, che restò un mistero, ma dopo qualche tempo, Marco diventò una vera e propria leggenda metropolitana e si conquistò l’ appellativo di Marco la chùatë.