Sono arrivata a pesare 40 chili, a non avere più fiducia e stima di me stessa al punto che ho messo in dubbio anche la mia capacità di essere una buona madre rischiando di cadere in depressione.
Tutto era un circolo vizioso. Ero depressa perché ero un suo oggetto, non sua moglie e più ero depressa più lui stringeva le catene che limitavano la mia libertà ed io, giorno dopo giorno, cominciai ad accorgermi del mio non essere nulla, se non madre e governante di questo uomo che manipolava la mia vita. Non vi era né rispetto né tanto meno apprezzamento e condivisione verso le mie passioni, la lettura e la scrittura erano per lui una minaccia al suo essere il “centro” delle mie attenzioni al punto che si inferociva nel vedermi con in mano un nuovo libro, per non parlare del fatto che, se accadeva di ricevere una telefonata o un semplice messaggio in sua presenza, subito si adirava.
Il computer per lungo tempo è stato guasto e nulla mi toglie dal pensare che lo abbia rotto lui volontariamente: “Internet ha rovinato molte famiglie”, affermava.
Piano piano aveva azzerato i miei affetti, la mia vita sociale e ogni mia possibile interazione col mondo esterno. In ogni persona vedeva una minaccia alla sua centralità al punto che oltre ad impedirmi di frequentare gli amici di sempre, le mamme degli altri bambini e la palestra che mi aiutava a scaricare le tensioni, arrivò al punto di dirmi che i miei familiari erano complici nel reggermi il gioco con il mio amante e ne cercava traccia in ogni viso che incrociava il mio sguardo.
Sì, un amante, e come avrei potuto averlo se la mia vita scorreva interamente fra quelle quattro mura?
Mi sforzavo di resistere giustificando questo mio sacrificio in ragione del bene dei miei figli, senza rendermi conto che loro stessi soffrivano il mio dramma. I figli per osmosi si imbibiscono di quello che noi madri viviamo, sentono se siamo serene o meno, ora lo so.
Quello che non so è dove ho trovato la forza, dopo quasi 15 anni di matrimonio, anzi di galera in una gabbia d’oro, di fare la valigia, caricare i miei figli e andarmene senza nemmeno sbattere la porta.
So solo che nel farlo ho sentito il respiro fluire libero e un sorriso dipingermi gli occhi mentre abbracciavo la mia bambina e il mio piccolo uomo.
Lui era fuori per lavoro, sarebbe tornato a casa il giorno dopo e ad attenderlo avrebbe trovato solo la sua immagine riflessa in quello specchio nel quale, giorno dopo giorno, ho visto spegnersi la mia femminilità in una continua perdita di peso. Li accanto, sul tavolino, quella rosa che mi regalò il giorno in cui mi chiese in sposa. Aggricciata e annerita dagli anni ora è li accanto alle mie chiavi di casa e a quel maledetto cellulare che mi diede in dono e con il quale controllava ogni mio spostamento o conversazione.
Andarmene è stato l’unico modo, duro, inequivocabile, per dirgli che volevo lasciarlo. Non ne avevo altri perché ogni qualvolta io abbia provato a parlargliene lui tornava a soggiogarmi con il vittimismo, le parole e il suo affermare con forza che se non fossi stata sua certo non mi avrebbe permesso d’essere d’altri e che per certo avrebbe scoperto chi fosse il mio amante.
Seppur vero che mio marito in 15 anni mai mi avesse picchiata o semplicemente sfiorata, ogni giorno sento in tv parlare di donne uccise da chi le amava al punto di non poter vivere senza di loro.
E poi, diciamocelo, la violenza psicologica non è meno devastante di quella fisica, non lascia tracce evidenti, vero, ma uccide lentamente con viltà e fredda determinazione.
Respiro a pieni polmoni ora e mentre accarezzo la mia bambina sorrido dei giorni che verranno. Poco importa se saranno tempi di sacrifici, di ricerca di un lavoro e di rinuncia ai tanti agi, oggetti, vestiti e gioielli che a suo dire erano prova dell’amore che mi riservava.
Ora sono qui, in camera mia, a casa dei miei cari genitori, sono nella mia camera da letto di quando ero bambina.
Accarezzo piano la mia piccola che dorme, il mio ometto è nella camera accanto. Osservo i miei giocattoli sullo scaffale e un sorriso torna ad illuminarmi il viso.