La Botte
Capitava spesso che le sere d’estate andassimo in banda a bighellonare o sostare da qualche parte al mare. Il nostro punto di riferimento era la Sala Giochi di viale Vespucci, poi di lì, suddividendoci per piccoli gruppi, partivamo per le diverse destinazioni, tipo il Nuovo Fiore di piazzale Pascoli, il Whisky jukebox o il Chiosco sull’Ausa, denominato "La Botte". In quest’ultimo sito, orde teutoniche vi calavano a mezza sera per consumare birra alla spina fino a notte inoltrata. Dopo mezzanotte si potevano notare alcune piramidi costruite con i boccali vuoti sulle diverse tavolate in gara fra loro. Quando incrociavamo serate del genere, noi con la nostra minuscola birretta ci sentivamo a disagio e quelli per giunta infierivano con sguardi feroci, facendoci sentire degli intrusi. Fatto sta che ogni tanto ci scappava qualche bel cazzottone, perché, ai loro sguardi poco rassicuranti, noi indirizzavamo apprezzamenti pedestri che avrebbero fatto sbiancare il diavolo. Coi tedeschi veri non succedeva nulla, perché naturalmente non capivano ma coi crucchi sì. Infatti, erano proprio quest’ultimi che ci guardavano in cagnesco e che si spacciavano per tedeschi. Allora qui scattava l’orgoglio nazionale e giù botte da orbi!
Il cinema Ambasciata, i bomboloni di Pippo e l’ortolano di Luigino
Molto spesso la nostra meta serale era il cinema. Saltavamo i muretti delle arene cinematografiche e ci guardavamo il film a scrocco, dopodiché ci recavamo alla rotonda del Grand Hotel a vedere le prostitute nell’attesa dei vari clienti, mentre Pippo faceva affari d’oro. Pippo aveva il dono dell’ubiquità, lo vedevi in ogni dove: sulla spiaggia, al porto, a scuola ed anche lì, alla rotonda. Si posizionava sotto un lampione come Lili Marleen lanciando il suo accorato richiamo: “Eccolo Pippo, bomboloni, croccanti, canditi!” e aggiungeva: “Venitevi a rinfrescare signore e signori, qui è tutta roba buona e fresca appena uscita dal forno!”. Qualcuno dei maggiorenni fra noi conosceva alcune passeggiatrici e le salutava scambiando qualche parola. Io ero minorenne ma conoscevo Maria, perché d’inverno batteva presso un’altra rotonda sul mare: Il Nettuno. Ricordo che aveva sempre un freddo boia, nonostante un’abbondante pelliccia che la copriva fino ai piedi. Sfido io, sotto la pelliccia stava completamente nuda! C’erano delle altre sere che dopo il cinema andavamo a rubare la frutta da Basso, l’ortolano di Luigino Serpieri (Pierulo). Ricordo una sera che ci guidava proprio lui Pierulo. Eravamo forse una ventina su un grande albicocco al centro dell’orto. Facevamo più chiasso noi a quell’ora tarda che una caserma di soldati in libera uscita e nel buio pesto cercavamo d’arraffare più albicocche possibili. Arrivò Peppe col forcale, l’ortolano che ben conoscevo, perché la mia casa distava a non più di 20 metri dalla sua e perché da bambino giocavo sempre coi suoi figli. Scappammo tutti verso l’uscita, visto che Peppe era pronto ad inforcarci. Ricordo che nella fuga Aureliano, l’unico a non portare i jeans, scivolò in un fosso coi suoi pantaloni bianchi e ne uscì ch’erano diventati del color della pece. Ad un tratto Luigino urlò: “Fermi tutti! Qui è tutta’ roba mia, cosa volete che ci faccia?” Infatti, gli si parò davanti e noi tutti dietro di lui. Peppe, brandendo minacciosamente il forcale, urlò: “Chi siete, cosa facete?”. Poi quando riconobbe Luigino abbassò il forcale e disse: “Siete Lei Signor Padrone?”. “Siamo venuti a prendere un po’ di frutta”, rispose Pierulo. Al che Basso soggiunse: “Non potete venire di giorno a prenderla quando ne volete?” Pierulo: “Perché non posso venire quando mi pare?” Basso mestamente: “Si Signor Luigino, ma se facete così rovinate tutto l’albero e ma a noi cosa si rimane?”. Mi vergognai molto.
Franco “Basetta”
Venendo a bomba al Bar Diana, c’è da osservare che ogni gruppo, generalmente, discuteva al proprio interno e giocava a carte o biliardo, venendo in contatto con altri gruppi solo occasionalmente. C’era un gruppo che chiamavamo “i campagnoli” costituito da 4-5 elementi coi quali nessun gruppo non si mescolò mai. Diversi di loro, tuttavia, fecero fortuna con l’intermediazione immobiliare e giravano in Mercedes. C’era il gruppo di Franco “Basetta” e i suoi discepoli Tito, Lino e Gino, questo gruppo rappresentava “la mala” che proprio mala non era, ma solo nulla facenti ad oltranza e veniva talvolta in contatto col nostro gruppo per scambiare qualche parola. Infine il nostro gruppo, molto numeroso, si suddivideva in almeno due o tre sottogruppi. C’erano “i distinti”, poi “gli scavezzacollo” e gli “sfaccendati”.
Paolo Anelli, vestiva in modo eccentrico ed elegante, gran fascistone, amava stupire la gente più anziana e meno acculturata con domande a bruciapelo del tipo: “Lei cosa pensa della diaspora?”. Non mancò quella volta che una vicina di casa, vedendolo giocare con le racchette da tennis sulla via di casa con un tipo dal fare equivoco (Paolo Netti) che teneva la sigaretta penzoloni sulle labbra, sentendoli pronunciare delle parole a lei sconosciute del tipo: “Belafonte, Calypso”, li denunciò alla polizia credendo che parlassero in codice, tramando qualcosa di losco. La donna oltre ad essere di un’ignoranza straordinaria, non avendo mai visto in vita sua siffatte racchette, ed anche ottenebrata dall’odio di classe, le scambiò per armi improprie d’offesa. Anche in questura non fu poi così semplice spiegare la cosa al sovraintendente, finché non intervenne un vice-ispettore a chiarire il tutto! Giocavamo spesso a carte testa a testa, cimentandoci nello “Spizzichino” (Tresette in due); lui era molto abile ma io, cresciuto alla scuola di mio padre, lo battevo spesso, anche se cercava di pareggiare raddoppiando sempre la posta in gioco. Nonostante i suoi escamotages, un giorno non riuscì a vincere nemmeno una partita ed avendo giocato al raddoppio come sua consuetudine, la somma era sostenuta: 1.400 lire contro le 200/300 che di norma ci giocavamo. Richiesto il mio avere, trovò mille pretesti per non pagarmi, allora io sbottai: “Ahah! Fai il nazista e sei un ebreo?”.
I “vecchi” distolsero lo sguardo dalle loro carte osservando incuriositi il battibecco. Lui, in quell’occasione si vergognò a morte e divenuto paonazzo mi disse sottovoce di non continuare nel bar che avrebbe perso la faccia; non pagò tutto il mio credito, tuttavia riconobbe che giocavo meglio di lui e questo m’appagò più dei soldi. Vestivamo dallo stesso sarto, Leopoldo Astolfi (Poldo) un vero artista nel confezionare giacche, ricordo che una volta Paolo si fece confezionare un vestito color terra d’Africa e i vecchi del bar dicevano se aveva rubato la coperta a un cavallo. Spesso vestiva alla James Dean e per assomigliargli ancor più s’incerottava il naso spiovente in modo che la punta si rivolgesse all’insù. Più di una volta mi prestò i suoi vestiti, quando desideravo esibirmi con le ragazze. Ci fu un’altra volta che fu ospite in famiglia con Paolo Ghirardelli per l’ultimo dell’anno e giocammo fino alle quattro del mattino a “Voglio” con mio padre. L’ultimo periodo di reciproca frequentazione fu al Circolo Tonelli, quando entrambi c’innamorammo di Letizia che più tardi sposò.
Giuseppe Anelli (Geppe)
L’amicizia con Geppe maturò più tardi, perché a quei tempi la differenza di un anno d’età era abissale ed io avendone sempre dimostrati più della mia età bazzicavo normalmente i più grandi. Anche con Geppe l’amicizia ebbe momenti intensi e momenti d’abbandono, poiché avendo interrotto gli studi vivevo una vita assai diversa.
Ciò che ricordo di quel tempo fu una camminata a piedi da Forlì a Castrocaro con Gabriele Tagliavini (il Ga’). Arrivati in paese, i vigili ci fecero subito la multa, per non aver attraversato la strada sulle strisce pedonali. Il Ga’ pagò con 1.500 lire per tutti e tre, perché noi non avevamo soldi o facemmo finta di non averne; lo prendemmo allegramente per i fondelli e lui me la fece pagare quattro anni dopo, tenendomi d’inverno sui sedili posteriori della sua Volkswagen coi finestrini aperti. Alle mie vane proteste mi disse che se non mi stava bene potevo scendere e farmi a piedi quei dieci chilometri che mancavano per giungere a casa, aggiungendo che quella era la punizione per averlo preso per il culo a Castrocaro.
Un periodo intenso lo passai con Geppe in occasione della frequentazione assidua con Mitzi che si dilettava di pittura, sia nel retrobottega del negozio di via Giordano Bruno, sia in una mansarda sulla piazza Tre Martiri; nel retrobottega del negozio Geppe mi fece un ritratto molto somigliante che conservai per moltissimi anni. Altro ricordo è quando al mare Geppe si trombò s’un moscone un’amica comune che la dava a tutti, mentre io, timido e impacciato, sullo stesso moscone continuavo a fare i bacini con una sbarbina di cui non ricordo, né nome, né viso.
Janco (lo Sceriffo)
Infine, prese parte con me ed altri allo scherzo fatto ai danni di certo Janco (lo Sceriffo), per il quale ho scritto una ballata: “Un bulletto di periferia”, visibile fra le poesie del sito. La ballata è, in sintesi, la storia di una burla perpetrata ai danni di Janco verso la fine degli anni '50. Noi eravamo una banda (si fa per dire) di teenagers di città, quando arrivò, al nostro mitico Bar Diana, lo Sceriffo che ci prese per nababbi. Livio ed io gli raccontammo che per mantenere quel tenore di vita spacciavamo droga, in gergo: "pasticceria". La polizia fu allertata dal quel trambusto ed agenti in borghese fecero indagini al bar, finite poi "a tarallucci e vino" anche grazie all'intervento di Bucina che nella vicenda impersonò il giudice che condannò il malcapitato a morte per impiccagione, con pena sospesa all’ultimo momento, quando lo Sceriffo era già sul patibolo. Lo stesso scherzo fu fatto in precedenza ad Ettore che non era sprovveduto come poteva sembrare; infatti, mangiata la foglia, prese a calci e rincorse alcuni fra noi che se la dettero a gambe per non essere malmenati. Tito fu l’ultima vittima dello scherzo che degenerò al punto di sbattergli nelle mani un cartoccio di merda squagliata al posto della presunta droga (solitamente una bustina con bicarbonato e vaniglia). Con le mani ancora sporche e maleodoranti rincorse alcuni di noi fin dentro il cinema Italia, dove c’eravamo rifugiati in massa. Ma l’unico che se la bevve proprio tutta fu proprio lo Sceriffo. Livio ed io capimmo subito che era il soggetto giusto, quando gli chiedemmo delle referenze e se era stato almeno una volta in galera, ci rispose di no, ma in compenso ci raccontò che rubava gli spiccioli dal borsellino della mamma e una volta era andato persino a rubare nei capanni al mare. Malauguratamente il bagnino l’aveva preso e seghettato di botte! L’arruolammo immediatamente. Di non secondaria importanza fu che dopo venti giorni di sparizione, per lo scherzo perpetratogli, riapparve al Bar chiedendoci se c’era ancora lavoro per lui e che per il futuro sarebbe stato più accorto!