Gli Spazi
Fu nell’autunno del ‘57 che cominciai a frequentare il Bar Diana, ubicato in via IV Novembre quasi dirimpetto all’attuale Banca Popolare dell’Emilia Romagna. A sinistra dell’ingresso trovavi il banco-bar, a destra tre tavolini con sedie, proseguendo c’erano tre biliardi e una sala gioco: quello a stecca di fronte, a destra gli altri due biliardi a boccette, a destra ancora la sala. Una scala a chiocciola portava al piano superiore, dove c’era un’altra sala gioco utilizzata la sera da giocatori d’azzardo ma la domenica strapiena sin dalle prime ore del pomeriggio. Adiacente alla sala c’era l’appartamento dei gestori. Quel bar non aveva niente di speciale se non gli avventori. Credo che i giovani riminesi di quel tempo abbiano tutti, almeno una volta, varcato la soglia del mitico Bar Diana!
I personaggi che bazzicavano a quel tempo il Bar potrebbero tutti rivendicare, di diritto, un posto in prima fila in quell’amarcord di stile felliniano, unico e irripetibile. Il Bar era gestito dalla famiglia Spazi. Lalo, bevitore e tisico, sembrava dover morire da un momento all’altro ma seppellì tutta la famiglia. La moglie Lidia, una mora procace, la vedevo spesso piangere e asciugarsi le lacrime che le pasticciavano il rimmel; morì attraversando la strada investita da un’auto. Tuda era la madre anziana di Lalo ed anche lei se ne andò presto in quanto anziana. Il figlio Mirko era costantemente seguito da una zitella con capellino da “Maestrina dalla penna rossa” chiamata “la Signorina”. Mirko era affetto da una malattia renale congenita e gli specialisti dissero che non sarebbe vissuto più di 15 anni e così fu. Incontrai Lalo, l’unico sopravvissuto della famiglia che faceva il portantino all’ospedale, era pallido come le lenzuola che trascinava stancamente sul carrello della biancheria ed ossuto come uno scheletro, ma era ancora vivo!
Il Bar era frequentato da una clientela molto variegata, si sentiva parlare molto di donne e d’avventure ma non mancavano le discussioni riguardanti lo sport e la politica. Fra i “vecchi”, oltre i 60 anni c’erano diversi commercianti del centro città oltre a pensionati, qualche invalido, qualche partigiano e qualche repubblichino. Anche i giovani erano d’opposte tendenze ma l’amicizia annientava ogni barriera ideologica. Destra e sinistra andavano a braccetto, senza rispettare alcun formalismo, si vedevano mani alzate col pugno chiuso e saluti romani, ma mai ci furono discussioni che oltrepassassero il segno. Insieme ai vecchi s’inserivano anche altri che vecchi non erano ma si comportavano come lo fossero; giocavano a carte tutto il giorno e solo raramente conversavano di qualcosa che non fosse il gioco. La classe d’età fra i 40-50 anni annoverava impiegati, perdigiorno e vitelloni, noi giovani eravamo la maggioranza, suddivisi in gruppi e sottogruppi, solo questo faceva la differenza.
Il gioco che andava per la maggiore fra “i vecchi” era la “Scala 50”, ricordo Mario che faceva la maschera al cinema Italia, quando staccava dal lavoro non si toglieva nemmeno la divisa e giocava a carte ad oltranza. Quando faceva caldo, restava spesso in canottiera e col viso paonazzo quando le carte gli giravano male. Una volta sentendoci parlare di donne disse che da giovane lo chiamavano “l’uccello della notte” in quanto girava in bicicletta con la scala in spalla, adagiandola poi sul cornicione di case dove le sue amanti l’aspettavano a finestre spalancate: quello era il segnale convenzionale di via libera alla camera da letto.
Pippo Campana era il più anziano, arrivava al bar nel primo pomeriggio col suo mosquito e con due mollette per i panni che gli stringevano i pantaloni alla caviglia. Perdeva spesso “cento” ma se aveva l’apertura scendeva immediatamente, anche se aveva due matte che gli avrebbero consentito di dare “mano” (far pagare il doppio dei punti agli avversari). Ogni volta che scendeva l’apertura gli altri giocatori gli dicevano: “Fasì un ènt z'ir Pippo!” e lui pronto rispondeva: “Nà nà an stag ilé a ciapè zént!”.
Marconi (ex partigiano volontario in Spagna) dipingeva insegne e non so cos’altro, portava sempre il basco in testa e i pennelli nel taschino della giacca; alle volte capitava che arrivasse di corsa al Bar, senza togliersi il camice impiastricciato di vernici, per non perdere il posto al tavolo verde. Sul gioco cercava di curare l’avversario scartandogli solo carte basse e finiva che ad ogni mano, pur avendo sceso delle carte in apertura, pagava molti punti con quelle che gli rimanevano e di questo poi se ne doleva molto. Ricordo che, una volta contando i 76 punti da pagare, si lamentò imprecando. Pippo, allora disse: “Vé vé, us lamènta lo’ e me ch'a ho ciapè zént?”. Il Marconi era un giocatore che non se ne stava mai in silenzio come normalmente gli altri, ma si esibiva in tormentoni senza fine; infatti, quando attendeva la carta dall’avversario per scendere e questa non era quella giusta, ripeteva all’infinito:“Guarda dove passa, guarda dove passa!...”.
Fra questi personaggi c’era anche il Moro, grande invalido, che scendeva dalla sua lambretta arrugginita e lo si sentiva arrivare per il pesante calpestio. Portava un paio di scarponi chiodati come quelli da montagna, a pianta larga e che salivano a mo’ di stivaletto oltre la caviglia, legati con grosse stringhe incrociate ed infiocchettate. Ogni giocatore manifesta sempre il proprio nervosismo, sia con carte belle o brutte e spesso impreca, ma mai ho visto il Moro alterarsi. Il suo massimo, quando noi al contrario litigavamo spesso con schiamazzi, era: “Ma andate a marina che ci sono le svizzere!” E quando qualcuno dei suoi avversari era molto fortunato gli ripeteva di tanto in tanto: “Quest l’ha e cul fat a sifòun!”
Il Monco non parlava mai, oltre che monco sembrava muto. Stava sempre con le gambe accavallate e sulla coscia teneva ferme le 14 carte col moncherino destro, con la mano sinistra pescava e scartava; quand’era il suo turno riusciva anche a mescolare e distribuire le carte nonostante la menomazione.
Rossi aveva sei figli ed altrettanti negozi di calzature. Quando giocava, fischiettava e canticchiava sempre, sembrava un cuor contento; quando gli occorrevano carte alte per l’apertura, si fermava alcuni secondi sullo scarto di tutte le carte basse, fingendo di contare ed essere interessato solo a quelle, poi aggiungeva: “quarentanov!”. Se qualcuno chiudeva senza che lui avesse potuto scendere l’apertura diceva: “Fat lavurir!” oppure “T-ci un bel uriginél!”. Se poi, a dieci metri di distanza lo vedevate diventare rosso ciliegia e sentivate ripetere il tormentone con tono di voce sempre più alto, significava che stava perdendo con le carte pure la pazienza!
Giancarlo Gasparri era l’unico giovane che giocava coi vecchi senza stare in soggezione, ma prima di darsi a tempo pieno al Bar, per un certo periodo venne a giocare da Livio, ricordo che fumava sigarette con filtro stringendolo fra i denti. Una sera oltre a noi due, al tavolo c’erano Livio, suo fratello Michele e Netti. Fu una sera di grandi punti e colpi di scena. Ricordo che Netti, dopo aver perso tutto quello che aveva, fece poker d’assi con 4 carte e puntò sul piatto la catenina d’oro che aveva al collo, ma nessuno coprì la posta. Giancarlo negli ultimi piatti perse con me 2.000 lire, una cifra considerevole per i tempi d’allora, visto che le perdite erano sempre molto contenute e superavano difficilmente le 500 lire. Ormai i soldi erano spariti dal tavolo, perché tutto il contante era andato a finire nelle tasche di Michele. Giancarlo disse che non aveva altro contante con sé e che mi avrebbe pagato in seguito. Poi, visto che i soldi non si vedevano, un giorno glieli chiesi ma lui fece lo gnorri dicendomi che non si ricordava. Provai ad insistere ma lui di rimando ribadì: “Se mi ricordassi ti pagherei senz’ombra di dubbio ma dato che non mi ricordo non ti pago”. Non c’è che dire: un bel uriginél anche lui!
Giovannino il fornaio giocava a poker spesso con Ferrante (quello della Casa del Corredo), con Piero Gambèla ed altri intimi che potessero completare il tavolo. Generalmente giocavano con le fiches ma spesso anche con i soldi sul tavolo, anzi sotto! Un sabato notte vidi lui e due altri fornai suoi colleghi, arrivare al bar ancora con la parananza e i capelli bianchi di farina ed appartarsi nella saletta al primo piano. Nella parananza tenevano in grembo i soldi della paga, sul tavolo le carte e i soldi per le puntate. Più avanti negli anni giocai anch’io con loro per un paio di sere e persi un mezzo stipendio di allora con Piero (30.000 lire), ma mi comportai come la maggior parte faceva, non pagai. Feci, dunque, lo gnorri anch’io e mi eclissai per un po’, ma Piero era un bonaccione e non reclamò mai il suo credito; poi un giorno gli chiesi scusa per non averlo pagato ma lui sorridendo disse: “Ma va là pataca!”.
Gnassi, Pisciotti e Baffo erano giocatori di “Terziglio” (Tresette: 1 giocatore contro 2 avversari). Gnassi, attempato ed elegante, se non trovava posto, restava tutto il pomeriggio a guardare, schiacciando tanti pisolini. Pisciotti, l’orefice rapinato 70 volte 7, giocava anche a biliardo con Vanni. Baffo era il più giovane, sempre gioviale, quando stava a lui la chiamata, diceva ogni volta: “Chiamo e vinco” oppure “Chiamo e perdo” secondo le carte che aveva in mano. Mentre per la “Scala 50” c’erano sempre tanti tavoli e non rimaneva che l’imbarazzo della scelta, il Terziglio, mio gioco preferito, era generalmente poco praticato dai giovani, così potei solo raramente dimostrare la mia abilità.
Borgia e Temeroli erano quelli che giocavano a “goriziana”; Blasi, dalla battuta spiritosa, senza stile nel gioco ma vincente, giocava a biliardo a stecca spesso con Lalo, perdente con stile.
Anche Imolesi giocava spesso “a boccette”. Tutti i pomeriggi era al Bar ed aspettava di cimentarsi con quel giocatore dal quale avrebbe avuto molte probabilità di farsi pagare il caffè ch’era solito ordinare. Un giorno, nell’attesa dell’avversario giusto che non arrivava, esordì ad alta voce: “L’è ormai du óri che sò ique e an sò ancóra cosa tom!”. Duilio che lo punzecchiava sempre per la nomea di taccagno, uditolo, gli fece di rimando: “ Tò e tu solit, nu tò gnint! Perché a tò un cafè t’atarvolt tota la nota in te let senza durmì, na per e’ cafè ma per i zent frènch che t'è spés!”.
Fra i più anziani c’era Vincenzo Orecchioni (Cecio), molto dimesso nel vestire, solitamente arrivava al bar nel tardo pomeriggio e si piazzava a un tavolo in penombra vicino al biliardo, dove si giocava a “goriziana” ed osservava i vari giocatori in silenzio. Qualche rara volta si metteva a segnare i punti, altrimenti stava lì col suo “Amaro Zara” e faceva ora di cena. Dopocena tornava sempre al suo posto, aspettando fino alla chiusura del locale, ordinando ancora il solito amaro; di domenica, talvolta, faceva uno strappo alla regola bevendosene anche tre fra pomeriggio e sera. In sua assenza, mai nessuno si sedette al suo posto, anche con il bar affollato, quello era il suo tavolo!