Non amo ricevere complimenti, soprattutto quando essi vanno a toccare quella parte di me che si sarebbe potuta realizzare e che invece non si è realizzata.
Ero arrivato secondo, quel giorno di maggio, al palazzo dove ha sede il Patronato, in attesa che venisse il ragioniere per aiutarmi a fare la dichiarazione dei redditi.
Il signore che era arrivato per primo prese un foglietto e vi annotò il suo cognome e (dopo avermelo chiesto) il mio, per stabilire, giustamente, un ordine di ingresso nell'ufficio del ragioniere.
Attratto dal suo cognome, uguale a quello di una ragazza per la quale, ai tempi dell'Università, nutrivo una forte simpatia, e che si laureò lo stesso mio giorno, gli chiesi se fosse un suo parente: mi rispose di no, però con questo pretesto cominciammo a chiacchierare, scoprendo così che avevamo quasi la stessa età e che anche lui si era laureato nel 1973, ma in filosofia.
Ci mettemmo a conversare, a dare impressioni e a emettere giudizi su quella vita universitaria così intensa e movimentata dei primi anni Settanta, che sfiorò soltanto chi, come lui e me, voleva studiare seriamente.
Dopo l'Università, mi disse, e dopo una brevissima parentesi di supplenze nelle scuole, si era dedicato a tutt'altro che all'insegnamento (non mi specificò a che cosa) . Quando io gli dissi che invece avevo fatto per trentasei anni l'insegnante di francese nella scuola media, si meravigliò alquanto, chiedendomi come avessi potuto sopportare quel tran tran per così tanto tempo, dato - bontà sua! - che aveva riscontrato in me una grande intelligenza.
Confesso che mi spiazzò e che non gli seppi rispondere: ciò accade sempre quando qualcuno affonda lucidamente un coltello in una nostra ferita che crediamo di aver rimarginato il meglio possibile, ma che continua a sanguinare tuttavia.
Ripeto che questo conoscente occasionale fu troppo buono con me (cos'altro, in fin dei conti, pensandoci bene, avrei potuto fare, data la mia accentuata mancanza di iniziativa?) , ma mi ha fatto pensare ai vari poeti, scrittori e letterati che insegnarono, per loro fortuna, soltanto per un periodo di tempo limitato nelle scuole, dove il loro genio era troppo compresso e represso, trovando poi, al di fuori di esse, la loro vera strada.
Pier Paolo Pasolini forse avrà ringraziato in cuor suo chi gli revocò l'incarico di insegnante a causa dello scandalo sessuale del quale veniva incolpato; Leonardo Sciascia non vedeva l'ora di farsi trasferire a Roma, da quel paesino siciliano in cui faceva il maestro elementare, per diventare impiegato al Ministero della Pubblica Istruzione, e sottrarsi così al contatto coi suoi piccoli allievi; Luigi Pirandello, in quel breve periodo in cui, per arrotondare i suoi guadagni, accettò di insegnare, a Roma, in una scuola superiore femminile privata, non destò molte simpatie (e inoltre, come ci riferisce gustosamente Andrea Camilleri nella "Biografia del figlio cambiato", fece progredire parecchio la già latente pazzia della moglie, gelosa - a torto - di tutte quelle giovani presenze femminili che circondavano il marito); e Cesare Pavese, che da giovane aveva fatto anche lui questa esperienza, nel suo "Il mestiere di vivere" scriveva: "Una classe prende la mano a un insegnante per trapassi impercettibili, che l'insegnante tollera per signorilità, sapendo che la sua presenza, non i suoi richiami, debbono ispirare il silenzio. Ma via via il brusio si fa generale e l'insegnante deve intervenire e richiamare qualcuno. La classe capisce che l'insegnante non è invulnerabile, che qualcuno ha parlato, che quel qualcuno ciascuno può esserlo. Seguono altri richiami che abituano al richiamo. Siccome non tutti possono essere colpiti, si forma uno stato di brusio tollerato che scusa ciascun allievo in particolare. (...) Il brusio diventa quindi uno stato endemico, di distrazione, di sfogo, di guerra, ora che si sanno i limiti delle reazioni dell'insegnante" (pagg. 137 e 138 nell'edizione "Einaudi Tascabili", del 2000) .
Forse non aveva torto Erasmo da Rotterdam quando, nell'"Elogio della follia", scriveva che, se tutta la vita è follia, e di conseguenza anche i mestieri sono folli, quello dell'insegnante è il più pazzo di tutti!
Qual è il motivo dell'insofferenza alla scuola da parte di questi grandi personaggi che poi si affermeranno come scrittori? Soprattutto nella scuola italiana, dove la "libertà di insegnamento" è un concetto piuttosto vago e sostanzialmente falso, le persone di valore si sentono limitate perché non possono insegnare davvero tutto ciò che vorrebbero e potrebbero, legati come sono ai programmi da svolgere, e condizionati da un ambiente imperniato - checché se ne dica - ancora, dopo i Patti del Laterano, su una visione sì laica della società, ma da maneggiare con cautela. (Inoltre è raro, durante gli intervalli, che dovrebbero essere simili ad oasi tra una lezione e l'altra, potersi incontrare con colleghi e colleghe interessati a parlare di cultura, per esempio dell'ultimo libro comprato e letto, perché a volte non l'hanno comprato, ma se lo sono fatto regalare da un rappresentante, e non si sa bene se l'hanno letto...)
La scuola italiana (e ciò emerge da vari studi) è agli ultimi posti nelle classifiche europee anche perché gli alunni, comprensibilmente svogliati, sono troppo spesso incoraggiati a esprimere banalità e concetti triti da un personale educativo sovente ben valutato soprattutto perché capace di instaurare buoni rapporti umani con la scolaresca, al di là di ciò che conosce (ormai è completamente fuori moda il pensiero, ancora valido secondo me, di Giovanni Gentile, che sosteneva che un insegnante si giudica innanzitutto dalle cose che sa) .
In Italia avremmo forse bisogno di una scuola futura con docenti davvero padroni della materia che insegnano, con insegnanti di Lettere o Lingue capaci di dedicare il tempo libero a scrivere poesie, racconti, saggi, con docenti di Materie tecniche che facciano in privato progetti di ingegneria o architettura, con professori da Arte o di Musica che espongano i loro quadri in gallerie d'arte magari di paese, o che compongano qualche brano musicale (a condizione che ciò sia efficacemente propagandato e valutato da chi sta ai vertici della Pubblica Istruzione) . (Ricordo che, quando frequentavo da alunno la scuola media, uno dei bidelli, Giovanni Venditto, che era stato, negli anni Trenta, una valida ala della squadra di calcio del "Napoli", talvolta veniva in palestra e ci faceva vedere, con garbo e competenza, come si giocava davvero a pallavolo, appassionando anche me, che sono stato sempre piuttosto refrattario alle attività sportive: per me era lui il vero docente di Educazione fisica, e non quel professore ufficiale così fascistoide!)