Caro Francesco, ho scelto deliberatamente di pubblicare questa lettera, dopo molti dubbi e qualche perplessità, dopo che ho parlato con Luciano, quest' estate, sulla panchina della "Piazza" che si trova davanti alla Chiesa della “Madonna dei Raccomandati”.
Sono da 20 giorni in Abruzzo, sepolto tra le macerie di un passato che non mi
appartiene più, rivedo ogni giorno le persone che parlano un'altra lingua (si fa per dire), sento il desiderio di dimenticare il "confort", la televisione, il computer, il cellulare, l'acqua calda e tutte quelle piccole cose che costellano la nostra esistenza e la rendono più "piacevole".
Passo delle ore, seduto su una panchina, vicino ai giochi, a scrutando ogni angolo di strada,
ogni screpolatura dei muri di gesso, ogni viso, ogni espressione per rivivere
con la mente, quei pochi momenti di felicità che ho vissuto a "Lu Jïs".
Vado spesso a "Monte della Terra" per ammirare il paesaggio che circonda il nostro paesello,
filmo il lago di "Sant'Angelo", la Maiella, la Chiesa di San Rocco, il gessificio, il mare che
fa capolino all'orizzonte e le nuvole che passano nel cielo azzurro.
Penso già l'inverno, quando la pioggia si mischia alla perenne nebbia della Val Padana, ed io rivedo quelle immagini al videoregistratore e capisco, forse tardivamente, il valore ed il significato delle cose.
Ma qui, è dentro le mura robuste della "Casa di mamma" che vivo le contraddizioni più forti: sento il bisogno di chiudere gli occhi, lentamente, e vedere correre per le scale Licia, Mirella, mamma e papà.
Il vocio dei componenti della mia famiglia si mischia agli odori del cibo, al sapore delle pietanze, al fumo delle sigarette di papà, allo squillo del telefono, alla "trombetta" di zio Berardino, alle litigate di Cicco e Lucia, alla paura del terremoto, alle discussioni, ai pettegolezzi.
Riapro gli occhi e mi rendo conto che la vita è troppo importante per sciuparla con le incomprensioni, le parole "sbagliate", i "silenzi", le rivendicazioni personali.
Il tempo cancella i ricordi e rende irriconoscibili i contorni entro i quali sono custoditi.
Sbiadisce le parole sussurrate, o mai pronunciate, dando spazio agli errori commessi, all'odio e alla cosa più sconvolgente, che è l'indifferenza.
A dire il vero, caro Francesco, in mezzo alla miriade d'immagini che costellano il mio passato, devo fare uno sforzo notevole con la mente per ricordarti da vivo, anche se abbiamo passato molto tempo insieme.
Il tuo suicidio, inspiegabile, che ha preceduto di qualche giorno la morte di mia madre e di qualche mese la nascita di mio figlio, ha offuscato il ricordo del periodo "verde-oliva" che abbiamo passato insieme a L'Aquila, all'interno degli stanzoni gelidi della Caserma “Rossi”.
Ricordo soprattutto l'aria che respiravamo insieme, "frizzante" come un buon bicchiere di Montepulciano d'Abruzzo, quando facevamo la guardia a "Telespazio", i tuoi capelli biondastri che erano quasi sempre spettinati, a causa del vento che soffiava dalla Maiella, ed i tuoi occhi straordinariamente azzurri, che fissavano il cielo per dare un senso alle "cose inutili" che ci obbligavano a fare.
Ricordo anche di averti visto, una volta, durante il cambio della guardia, ma non so più se era sotto l'effetto dei "Cordiali" che bevevo spesso in tua compagnia o un segno premonitore della mia immaginazione, pregare in ginocchio, all'interno dell'altana dove un alpino si era tolto la vita in un momento di disperazione.
Le lunghe passeggiate d'agosto che faccio per il paese, con Gianfranco, Aurelio, Gianni e Giuseppe, non sono più le stesse.
Si finisce sempre con il parlare dei momenti che abbiamo passato insieme a discutere di politica, di ragazze e del bisogno "epidermico" che sentivi di fare un lungo viaggio.
Non ho saputo interpretare i tuoi messaggi, le tue richieste d'aiuto, il tuo dolore, la tua voglia di andartene in punta dei piedi.
Il dramma umano, che circonda il mistero della tua morte, ha seppellito, forse per sempre, le motivazioni che ti hanno indotto a cercare la morte in quel modo così plateale.
Hai voluto, forse, farlo nel modo più doloroso, per dare paradossalmente sollievo alla sofferenza che accompagnava il tuo tormento?
É un dubbio e un interrogativo che ci accompagnerà per sempre proprio come il tuo ricordo.