In un giorno della mitica estate del 1985, i raggi del sole si riflettevano sulle scaglie di gesso delle case diroccate facendole brillare e dando all’ambiente circostante un non so che di esotico.
Amardolce sembrava essere diventata la kasba di una città maghrebina. L’aria era così surriscaldata dal sole che cercavamo la frescura in ogni angolo e per tutto il giorno.
Quel pomeriggio, ero sdraiato sul letto e cercavo inutilmente di dormire, quando sentii squillare il telefono. Dopo qualche istante, mia madre mi chiamò e mi disse che qualcuno mi voleva al telefono. Mi alzai lentamente, ogni gesto era rallentato perché il sudore mi impediva di fare movimenti bruschi.
Arrivai all’apparecchio telefonico, afferrai la cornetta appoggiata sulla credenza, la pulii accuratamente con un fazzoletto a quadretti e la accostai all’orecchio:
“Pronto, sei tu Sergio?”
Lo riconobbi immediatamente. Era Lucio, il “pittatore” del paese. Un artista geniale che sapeva coniugare la sua bravura pittorica con la modestia che lo contraddistingueva dagli altri pittori. Sebbene diplomato all’Accademia di Belle Arti di Lecce, preferiva lavorare con il padre in una cava di gesso piuttosto che abbandonare il paese natio per andare a insegnare “Educazione artistica” nell’Italia settentrionale. I suoi quadri erano degli autentici capolavori.
“Sì, sono io… Dimmi?”
“Mi accompagneresti a Vasto? Mi hanno selezionato per una mostra personale al Castello Caldoresco?”
L'inaugurazione sarà il 24 luglio prossimo”.
“Va bene! sarà un onore per me accompagnarti.”
Tornai a letto con l’illusione che il caldo tropicale si attenuasse durante la notte e mi permettesse di dormire.
Nei giorni successivi, per fortuna, ci furono alcuni temporali che rinfrescarono l’aria. Nonostante il caldo afoso e l'aria pesante che m’impedivano quasi di respirare, riuscii a trovare il tempo per leggere alcuni libri e vedere vecchi film in bianco e nero che trasmettevano di notte su RAI 3.
L’agognata mostra era per il sabato successivo.
“Mi raccomando, Sergio, non arrivare in ritardo! Lo sai che odio aspettare.”, mi raccomandò Lucio al telefono qualche giorno prima dell'appuntamento.
Lavorava sodo nella cava di gesso e riusciva, sottraendo tempo al sonno, a produrre le sue opere molto suggestive e il fatto che fosse stato invitato per una personale al “Castello Caldoresco” di Vasto era per lui, la prima vera occasione di esporre i suoi dipinti in un posto prestigioso e molto frequentato dai turisti, soprattutto francesi e tedeschi, che frequentavano le spiagge adriatiche.
Arrivai in anticipo all’appuntamento e trovai anche il tempo per bere una gazzosa ghiacciata davanti al bar del paese.
La piazza era deserta e alcuni piccioni disidratati cercavano refrigerio nell’acqua stagnante della fontana monumentale.
Lucio arrivò puntuale alle 16.00 con la sua utilitaria rossa.
Pagai la bevanda e mi avviai lentamente verso la sua macchina posteggiata nell’unico posto ombreggiato del piazzale.
Salii sull’automobile e mi resi subito conto che era successo qualcosa di grave perché era pallido come un lenzuolo.
“Non posso andare all’inaugurazione della mostra…”, mi disse sottovoce.
Lo guardai allibito, quasi incredulo perché sapevo quanto fosse importante l'esposizione per lui, e che non ci avrebbe rinunciato neanche se lo avessero legato mani e piedi al centro dell’atelier dove lo vedevo dipingere da quando era adolescente.
“È morto Valerio, il mio amico di Lama dei Peligni. Si è suicidato. Aveva soltanto 24 anni… Devo andare da lui…. Tu, cosa ne pensi?”.
Non risposi alla sua domanda e, per la prima volta durante quell’estate caldissima, un brivido di freddo mi attraversò tutto il corpo, come una scarica elettrica, e mi fece tremare. Andammo al funerale e dopo prendemmo la strada per Vasto.
Arrivammo che la sala era praticamente vuota. Il buffet, pagato profumatamente dall’artista, era stato saccheggiato dalle innumerevoli persone che avevano atteso invano per alcune ore l’arrivo del “pittatore”.
Lucio, aveva preferito andare al funerale del suo migliore amico, che si era suicidato in un momento di depressione, piuttosto che partecipare all’inaugurazione della sua mostra che gli era costata la cessione del suo quadro più bello “Il funerale di Enrico Berlinguer” per coprire almeno parzialmente le spese organizzative del vernissage.
Dopo avere cercato di dare una spiegazione credibile all’organizzatore dell’evento, andammo tutti a mangiare una pizza in un ristorante della città abruzzese con una tristezza che non sono mai riuscito a dimenticare completamente dal mio passato.