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Alfìn non sol per chi fa màl vièn Morte,
ma questo dell’umano è aspro Destino.
Anche pe’ il Genio l’ore qui son corte,
e tu spirasti, quasi un fanciullino.
Sur d’una sedia è un farmaco, del vino,
e le tue gote a un Requiem son assorte.
Lungi è la sposa, lontano il bambino,
dal letto sorger vorresti, e più forte.
Ma solitario - ahimé - l’empia tua Sorte
disfidàr ti lasciò il vìver meschino,
che niùn a piànger ti bussò a’ le porte
mentre nel buio, lì, incontravi il Divino.
Cosa ho fatto di mia Vita? o tapino
chiedèndoti vai... Trofei, e glorie e scorte
di lauri. Nulla! Il pianto... è il tuo Destino,
non puoi vìncer colei che vièn, la Morte.
Ora comprendi che i giorni son bei
Sogni, o perdute spemi, attimi altèri,
che scòrrono e non mòstransi or mai più;
che Vanità ascòndon i finti nei,
le ciprie, e le parrucche e l’oro. E speri
che altro vi sia oltre ciò che in terra fu.
"Costanza, dove sei? Oh Leopoldo, aiuta
tua sorella... dimenticàte un Genio,
che oltre la Musica or forse mai amò!"
"Non ho moglie, la donna fia perduta
che amai per prima, della Corte il degno
giovine astro che un giorno m’infiammò".
Allora il misero il suo testamento
lo ripeté al silenzio della stanza,
e si compì la lagna delle rune.
La salma era gelata come il vento.
Così due servi con macabra danza
lo gettâr in una fossa comune.
Due plausi al chiàr di Luna;
una pala che a’ sassi fa la guerra...
e senza un nome lo copre la terra. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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