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Ai banchi, posto prendono i signori
della città, con gran sussiego e onore;
vidi i patrizi, e mi balzò, almo, il core,
fra drappi insigni, be’ brillanti, ori;
i frati, dietro al grande altare, i cori
latini intonan, sul mezzan, maggiore;
sonano a festa le campane, all’ore
centrali al dì, piene di sole e ardori.
Le torri guelfe spiccano a minaccia,
l’esilio è tristo, quale è questo mondo:
l’Imperio aspetta noi, nel Paradiso;
noi svevi, il volgo d’eresia ci taccia,
io, in cattedral, son visto, e... non nascondo
i segni del pensier d’oltr’alpe, in viso...
...apre il Suo inno il Sire, ed io rispondo. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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«Dall’altar maggiore in santa Reparata, un coro di frati si eleva al Sire della città. I signori eminenti si assidono sui banchi, dignitosamente. Io anche, unendomi al coro sovrumano. Mentre le campane suonano a festa, sento la minaccia scagliarsi su di me dalla cima delle torri guelfe, l’incombenza dell’esilio, che già è questa vita, rispetto all’origine delle anime nel Reame di Dio Sommo. I segni dell’anelito alla "suavitas", alla Svevia Paradisiaca, di là dei monti del Purgatorio, rimangono visibili sul viso dei poeti, raminghi e celebrativi.» |
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